Bova, Amendolea, San Leo. La stagione degli amori e della felicità.

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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Profumo d’Aspromonte: resina ed erbe selvatiche, frammisto al sentore delle capre. Dolce e acre nello stesso tempo. E’ solo qui, e in nessun altro posto. Entra nelle nari, attraversa i polmoni, muta il sangue, ricompone ricordi nella psiche. E’ lui che attiva, oggi, i miei recettori della felicità. La felicità di cui parlo è quella che viene quando dimentichi, per un po’, preoccupazioni, delusioni, sofferenze. Alla quale si contrappone, normalmente, menefreghismo, vitalismo, edonismo. No, per me la felicità non è questo. Per me è "eudemonia", come dicevano gli antichi greci, da eu = buono, e daimon = genio. Che significa "posseduto da un buon genio". Dove per genio si intende uno spirito guida, un angelo custode che ci sproni ad adempiere al nostro destino, alla nostra missione sulla Terra. Ci sono volute tre ore d’auto per giungere fin quassù, sempre sotto la pioggia battente. Solo all’estremo sud della regione, d’incanto, si apre un campo di resilienza al mal tempo. Dalla Fiumara dell’Amendolea e da Bova sono risalito verso monte, con sotto il mare di Omero e l’Etna, imbiancato dalla prima neve. Attraverso il confine del Mondo dove vive un pezzo della mia anima, nel sembiante di un pastore-eremita. Penetro nella forra del San Leo. Mentre cammino in silenzio fra i grandi pini, non trovo altra definizione per il mio stato se non quella che descrisse Soren Kierkegaard nel libro omonimo: “timore e tremore”. Egli trasse la frase da una lettera di Paolo ai Corinzi, che riguarda l’esperienza di Dio. Ed è proprio questa l’esperienza che vivo fra le navate della foresta, sotto il cielo di cobalto, sulle rupi dagli immensi paesaggi. Rudolph Otto la chiamerebbe “esperienza del numinoso”. Cerco un luogo che mi trovò molti anni fa. A ogni passo si ricompone il puzzle dei ricordi. E insieme ai recettori si attiva anche la topografia mentale. Un varco fra le fronde dei pini mostra, al di là della gola fluviale, il profilo della rupe che i topografi chiamarono Contrada Cozzi, sotto Monte Scacciarro: un protervo aggetto di roggia a picco sugli irti meandri del San Leo. Trovo un modo per scendere nel fiume, guadare, e salire sul versante opposto. Sino alla finestra sul Mondo. Vedo quasi tutto di quel Mondo. Tranne ciò che i fisici chiamerebbero materia oscura, che ne è gran parte: abissi di pietra e acqua, canaloni, canyon, piccole rovine sepolte nella vegetazione, tratti di bosco inesplorati. Finito il pellegrinaggio, ridiscendo a Bova, il borgo sospeso sull’immenso. Sento Noemi. Sta guidando un gruppo di stranieri per cogliere il tramonto alle rovine di Amendolea. La raggiungo per il sentiero che attraversa quell’immenso. Atterro sugli orti aulenti, ai margini della fiumara. Saluto Ugo, che, in mezzo ai bergamotti, ha un’oasi di bellezza nella bellezza. E qui trovo altri stranieri che compiono un trekking sulle tracce di Edward Lear. Ma non era finita la stagione turistica in Calabria? Si, lo era. E’ cominciata quella dei visitatori, degli amori, della felicità. E non finirà mai più.

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