L’integrazione degli immigrati: perché la politica non resti indietro rispetto a ricerche studiosi

Scritto da  Pubblicato in Pino Gullà

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Ettore Recchi, professore ordinario di Sociologia, attualmente dirige i programmi di master e dottorato a Parigi; ha progettato e coordinato tre importanti progetti di ricerca finanziati dall’UE sulle migrazioni e il transnazionalismo; in passato ha insegnato in diverse università italiane, europee e americane, curando, in particolare, indagini sui migranti in Italia. In un suo lavoro, La scommessa dell’integrazione degli immigrati nell’Europa contemporanea: un bilancio comparato, ha esaminato le problematiche migratorie nella loro complessità senza trascurare il fenomeno nella sua concretezza storica. Ha iniziato l’indagine dal significato della parola “integrazione” e dal suo contrario “disintegrazione” per porre in evidenza che “l’integrazione sociale” realizza la coesione di una comunità, la sua armonia in contrapposizione al conflitto. Se il professore Mario Deaglio, ne La punta dell’iceberg: le migrazioni internazionali…, ha analizzato, nella parte iniziale, l’immigrazione contemporanea attraverso le analogie con le vicende dell’Impero Romano e della Repubblica di Venezia (v. articolo nell’ultimo numero dell’edizione cartacea de il Lametino), lo studioso Ettore Recchi ha osservato il fenomeno tramite l’analisi sociologica dell’integrazione nella Chicago degli anni Venti del Novecento. Per lo studioso, nel momento storico appena detto e nella città statunitense esaminata, l’integrazione dei migranti si era identificata con l’assimilazione della cultura della città ospite e non era avvenuta nessuna contaminazione; il migrante si era adeguato al modello del luogo di arrivo; usi e costumi degli autoctoni non avevano subito alcun mutamento; mentre quelle del migrante rivelavano un cambiamento radicale. In pratica l’immigrato aveva fatto, consapevolmente o meno, determinate esperienze che lo avevano condotto ad accettare i valori della città ospitante. Tra la ricca bibliografia del lavoro svolto viene citata in nota l’opera di Milton Gordon, Assimilation in American Life… del 1964, la prima indagine sociologica completa delle minoranze in America. Il sociologo nordamericano ha messo a fuoco le varie tappe dell’assimilazione: “Acculturazione, assimilazione strutturale, assimilazione matrimoniale, assimilazione identitaria come perdita del senso originale di identità e assunzione di una nuova identità condivisa, ricezione delle attitudini come assenza di pregiudizi, ricezione delle abitudini come assenza di discriminazioni, assimilazione civica, come assenza di conflitti tra valori e potere”.

Mirna Safi, ricercatrice d’oltralpe che si occupa di integrazione, ha espresso critiche e limiti al concetto di assimilazione di Gordon: il processo di inserimento potrebbe essere rallentato da “fenomeni di discriminazione” o da incertezze sul percorso da seguire. Il paradigma americano dell’integrazione che si realizza come assimilazione non ha trovato terreno fertile in Europa. Per una serie di ragioni, negli anni Settanta del secolo scorso i familiari degli immigrati residenti si sono ricongiunti nei Paesi ospiti. L’aumento dei ricongiungimenti è risultato notevole nell’Europa Occidentale e Settentrionale a tal punto che la società si è trasformata. Nel contempo sono nati in America e in Europa “movimenti antirazzisti, per i diritti umani e per la tutela delle minoranze che hanno portato in auge i temi della valorizzazione delle differenze culturali e del riconoscimento delle identità etniche”. Così è tramontato il modello dell’assimilazione di Gordon. Dagli anni Ottanta in poi ha conquistato sempre più spazio il paradigma multiculturalista che si è realizzato con il pluralismo, la mediazione e l’integrazione. Perché si concretizzasse ha avuto bisogno di politiche modulate, flessibili. Ritengo utile riportare alcuni stralci di quanto scritto in nota nell’indagine: “… l’adozione del multiculturalismo nelle politiche scolastiche, la sensibilità verso la differenza etnica nei media, la concessione della doppia cittadinanza, il finanziamento delle attività culturali legate alle etnie…”  Pertanto le iniziative politiche mirate sono state attuate in maniera più o meno efficace laddove c’erano rapporti duraturi con lo straniero per eredità coloniale, insediamento storico di minoranze, manodopera di immigrati di lungo periodo. Tali rapporti consolidati si sono concretizzati con interventi finalizzati particolarmente in Francia, in Germania, in Gran Bretagna.

Ma anche il modello multiculturalista ha palesato limiti e critiche riportate dallo stesso Recchi: “La tutela delle culture può infatti rappresentare una sorta di moda legittimante, per cui ogni intervento in favore degli immigrati (…) risulta importante pubblicizzarlo [al di là della sua valenza multiculturale]”. A volte ha creato frammentazione sociale; alcuni comportamenti dei nuovi arrivati violano i principi di convivenza civile.   Inoltre potrebbe generare incomprensioni tra autoctoni e migranti se si privilegia (o in apparenza sembra essere favorita) la diversità a tutti i costi.  Di conseguenza alcuni studiosi hanno ripensato il multiculturalismo (v. Pierpaolo Donati, Oltre il multiculturalismo, Laterza). E’ subentrato il termine interculturalità che, però, non riesce a gestire differenze marcate e/o valori conflittuali tra di loro. Per risolvere in qualche modo le problematicità, elementi di assimilazionismo si sono inseriti nel modello multiculturale. Per esempio in Italia l’accordo di integrazione, divenuto requisito essenziale per il permesso di soggiorno. Vengono precisati degli obblighi per lo straniero ad esempio: apprendimento della lingua italiana, dei principi costituzionali, delle regole di convivenza civile. Ma a volte non c’è spazio per il dialogo. In realtà non è questione di due modelli incompatibili. L’accordo d’integrazione dimostra il contrario. Si tratta, bensì, di politiche inconciliabili: quelle che sono a favore dell’inclusione sociale ed altre che la contrastano. Il recente decreto sicurezza dell’attuale Governo italiano va nella seconda direzione con il depotenziamento degli Sprar. Fibrillazioni nella maggioranza. Alcuni senatori non sembrano intenzionati a votarlo. Sarebbe opportuno cambiarlo. Modificarlo in parte. Almeno. Maggiore rispetto per il dettato costituzionale e per i Trattati internazionali. Bisogna farlo sennò la politica resta indietro rispetto alla ricerca degli studiosi sull’integrazione.

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