Tacina e Ciricilla: le valli delle meraviglie

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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 “Se la Sila fosse stata salvaguardata, avremmo ora in Europa […] una splendida selva, eguale alla […] foresta di Bialowieza”. Così scriveva la poetessa polacca Kazimiera Alberti, che nel 1949 camminò a lungo sui sentieri della Sila appena depredata dagli alleati e giunte al loro minimo storico. Eppure Kazimiera si affrettava a chiarire: “Conosco veri angoli selvaggi; in Svizzera (Julierpass) ed in Norvegia, in Erzegovina e Montenegro, ma la Sila, con la sua dolcezza e la poesia del suo altopiano, con la vista enormemente estesa e meravigliosamente boscosa, con ai piedi una vegetazione quasi tropicale ed in alto la ricca flora delle foglie e degli aghi, con le sue vallate radiali in cui maturano castagni e ciliegi non può essere chiamata selvaggia. La dolcezza del clima eccitata dalla vicinanza dei due mari, la luminosità speciale che manca alle nuvolose Alpi, creano un carattere di serenità.” Mentre racconto questo ed altro agli amici che sono con me all’apice dello spartiacque fra le valli del Ciricilla e del Tacina, il cielo si rabbuia e scende una pioggia sottile. Uno dei nostri ha visitato Bialowieza, l’ultima foresta primigenia dell’intero continente europeo. “Un sacrario! - ci dice - Per impedirci di contaminare il suolo con i nostri piedi, era consentito camminare soltanto su apposite passerelle!” Siamo saliti sin quassù da Villaggio Verberano, sul Lago Ampollino. Ed ora scendiamo sul lato opposto della dorsale del Monte Scorciavuoi per un sentiero ignoto ai più che è l’accesso preferito ad uno dei miei luoghi dell’anima. Lunga sgroppata fra foreste di faggi e di pini inframezzate da madide radure, a fianco di un ruscello che scorre con voce di cristalli tintinnanti. La pioggia si alterna a sprazzi di luce che esaltano i colori autunnali.

 Spiccano le fiammelle dei pioppi e degli aceri isolati. Ma i più smaglianti, oggi, sono i ciliegi, sempre vicini a qualche vecchio rudere, per rendere la vita degli uomini più dolce. Finché usciamo dalla foresta e, d’improvviso, ci troviamo allo scoperto, sul Poggio degli Elfi. Prego tutti di mettersi in fila e di salire insieme, in silenzio, sulla larga sommità. Per godere della vista senza tempo della grande valle. È il Tacina, la “madre di tutte le fiumare”, come la chiamava Carmelo, un pastore che qui viveva, in una baracca di legno, da maggio a novembre. Un enorme imbuto oblungo di praterie al cui centro serpeggia il fiume e sui cui lati risalgono i boschi. Ogni volta che vengo qui ho una vertigine, una commozione. Penso che anche questo piccolo grande luogo potrebbe divenire un sacrario, come Bialowieza. Penso che qui vorrei fossero sparse le mie ceneri. E mentre, lentamente, come solcassimo il sacro suolo di una tribù indigena, cominciamo a risalire la valle, ecco comparire in alto, alle nostre spalle, la “macchia scura e ondulata” del Monte Gariglione così come, forse, la vide Norman Douglas nei primi anni del ‘900. Egli fu più fortunato di Kazimiera Alberti, perché vide il Bosco del Gariglione quando ancora era una selva primigenia. “Una foresta vergine, mai sfiorata da mano umana - egli scrive - un autentico Urwald, o giungla vergine. Per quanto mi risulta, non esiste nulla di simile da questa parte delle Alpi, e nemmeno nelle Alpi stesse.” Saliamo sin quasi alla testa del Tacina, riguadagnamo lo spartiacque più in alto e, poi, giù per una ripida via, sino al fondo della gemella valle del Ciricilla. Ridiscendiamo ora lungo il fiume, che ci riporterà al punto di partenza. La pioggia si sgrana, fredda e leggera. Nebbie celano le meraviglie cromatiche della foresta. Sembianze d’alberi e fronde fluttuano nell’acqua.

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