Valle del Badia: almanacco di un mondo semplice

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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Doveva essere Aspromonte. Volevo andare a sud. Ma la mia caviglia necrotica lancia sinistri segnali. Ripiego per le montagne di casa. E fra esse per quelle che Alessandro ha eletto a sue montagne dell’anima. Feroleto Antico, il paese da cui proviene la sua famiglia, è un piccolo borgo. Non so come faccia a non franare dal costone cui è artigliato. Le sue case sono un miracolo di armonioso disequilibrio. Scale dappertutto. E vichi, stretti e ripidi. In alto, prima che cominci la giungla, c’è una sughera gigantesca, in un parcheggio accanto a due camioncini di ambulanti abbandonati. Oltre la strada c’è il nostro mondo. E non ci basterà un’intera vita per esplorarlo, conoscerlo, farcene sazi. Giù nel fondovalle del Badia, per l’antica mulattiera, e poi sul ponte che attraversa il torrente. Entrambe le pendici sono un cesello segreto di muri a secco e terrazzi, ormai quasi completamente avvolto nella vegetazione. C’è di tutto, ulivi, alberi da frutto, castagni, orti, perfino una casa con il tetto di tegole sormontato, agli apici, da due brocche panciute di terracotta: forse un segno apotropaico; o forse solo un tocco di grazia, magari femminile, visto che le “vozze” di queste zone richiamano tanto i fianchi di certe statuette femminili delle antiche religioni della Grande Madre del Mediterraneo (ne parlano Robert Graves, Marija Gimbutas, Riane Eisler). L’ombra della notte si dilegua dinanzi al sorgere del Sole Invitto. E con essa la brina gelata. L’acqua mugghia furiosa fra i massi. Sulla pendice opposta in mezzo a macchie di castagneti scampati ai tagli. Improvvisamente sbuchiamo su un pianoro arato di fresco. Dalla terra spuntano le cipolline selvatiche che in Calabria chiamano “lampascioni”. Il primo villaggio è Galli. Nel caotico cortile di una casa diruta la carcassa di una spider rossa adibita a contenitore di oggetti ed attrezzi. Sul tettuccio sonnecchia un gatto, perduto nei suoi sogni, disinteressato a quegli intrusi che lo osservano: piacerebbe anche a me abbandonarmi, di tanto in tanto, ad un sonno letargico come questo. Un’altra “vozza” giace intatta su un tavolo. Il secondo villaggio è Accaria. Entriamo nella chiesa dai muri ornati di piccole schegge di scisto: era l’antico modo di dare l’intonaco, che qui chiamano “civatu” o “rapillu”. L’interno è gremito. Buona parte del villaggio ascolta la messa.

Piacevole sorpresa: avvertiamo un senso di comunità raccolta attorno al mistero del sacro. Prendiamo la veccia “cava”, la mulattiera scavata nella roccia, delimitata da folte siepi di eriche, ginestre spinose, rovi e felci, che sale verso monte. Eccoci ai Piani di Scifo. Grandi terrazzi marini puntellati di cerri e ontani, isolati o a piccoli gruppi, da cui lo sguardo spazia all’infinito verso sud: la Piana di Sant’Eufenia, il Golfo, il Mar Tirreno, la costa, le montagne del sud della Calabria, la Sicilia. Qui erano i granai e i pascoli di tutta la gente che viveva in basso. Una casetta di pietre dal tetto sfondato conserva ancora, all’interno, una cucina economica a legna. Più su la strana Pietra dello Scifo, una sorta di sarcofago chiamato col nome dialettale della mangiatoia dei porci. Probabilmente faceva parte di un palmento all’aperto, come tanti ce ne sono ancora in Calabria. Una quercia colossale è stata tagliata ed abbandonata. Vicino, fortunosamente vivo, un raro ibrido fra sughera e cerro, anch’esso di proporzioni notevoli. Saliamo ancora e ci sperdiamo. Come capita talvolta. Vaghiamo per un’ora nel bosco. Incrociamo finalmente una strada. Stiamo già pensando a ripiegare per tornare dalla stessa via dell’andata, quando qualcuno ci suona da un’auto. E’ Giuseppe, un giovane agronomo che abbiamo conosciuto qualche anno fa in una manifestazione in difesa del Bosco Archiforo sulle Serre. Vive in una frazione isolata di Platania con la moglie. Gli chiediamo di accompagnarci più avanti per evitare il lungo tratto di strada asfaltata e riprendere l’anello che ci eravamo prefissati. In macchina parliamo della sua scelta. Quella di lasciare la città e venire a vivere in un luogo da cui tutti fuggono. Più avanti incontriamo l’asino e le capre di Paolo, un giovane di Como, che è venuto a vivere ancora più in alto, a Case Serre. Si sta prendendo cura del luogo, lavora la terra, ripulisce i sentieri, libera dalla vegetazione le edicole votive perdute. Questi due ragazzi mi ricordano la slow culture di cui parla Luigi Zoja nel suo “Utopie minimaliste”. Ci sono tante persone, nel mondo, che volontariamente si tengono fuori, in disparte, non vogliono apparire, non cercano il successo, la ricchezza materiale. Zoja li chiama “neet”: not in employment, education or traning). In molti casi hanno completato con profitto gli studi superiori, vivono di poco, di quanto possono produrre con le proprie mani. Abborriscono quelle che Hans Kung chiama, in “Onestà”, le cinque “C” mondane: Cash, Credit Card, Car, Condominium, Country Club. Sono attratti dalle cinque “C” delle antiche religioni: Creed, Cult, Code, Conduct, Community. Si rifiutano, insomma, di divenire anelli dell’ingranaggio che fa sferragliare la società del pensiero unico. Sono persone che spesso hanno rinunciato a trovare un impiego classico o, in altri casi, sono stati rifiutati dal mercato. Gli economisti li considerano una iattura. Ed invece rappresentano le ultime, vere sacche di resistenza fattiva alla dittatura economico-finanziaria, all’idolatria del danaro, del successo, della competizione, dell’apparire entro cui viviamo. Giungiamo a Polidonte. Ringraziamo Giuseppe, gli chiediamo scusa per avergli fatto perdere del tempo. La sua risposta è: “grazie a voi per l’occasione. Il tempo qui non è un problema”.

Ci caliamo sull’altro versante della valle del Badia. Case Tinghi e la “cona” di Tinghi (un’edicola votiva restaurata da un’emigrata che ne aveva ricevuto la richiesta in sogno). Grandi cerri, ontani, campi di erba medica e di fieno, pascoli, rovine. E poi un favoloso affaccio sull’Istmo di Marcellinara, il Monte di Tiriolo ed il Golfo di Squillace. Un orto mirabilmente terrazzato inizia ad affondare nell’ombra del sole calante. La mia caviglia batte furiosamente. Al villaggio di Ievoli due anziane donne tornano dalla fontana-lavatoio con delle bottiglie. Cinque ragazzi giocano sul sagrato della chiesa. Attraversiamo le case di Marcantoni e poi di Giacinti. Le persone sono tutte attive: chi ritorna dai monti con un piccolo gregge, chi lavora di fino con l’accetta del legno fresco, chi ripara il motore di un attrezzo, chi rimesta nell’orto … Anche questi sono “neet”, appartati dal mondo, persone semplici. Qui si vive come in ”Almanacco di un mondo semplice” di Aldo Leopold. “Per noi che apparteniamo a una minoranza – scrive Leopold - la possibilità di vedere delle oche è più importante della televisione, e l’eventualità di trovare un anemone costituisce un diritto inalienabile quanto la libertà di parola”.

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