© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA
In questi ultimi giorni molti si affollano al capezzale del centrosinistra per scientificizzare le ragioni dei recenti fallimenti politici e poi elettorali. Il dato che accomuna questi specialisti dell’estrema unzione che hanno indotto il centrosinistra al suicidio è l’appartenenza alla categoria dei vissuti a pane e politica, e più raramente a quella del lavoro vero fatto di fatica e sudore. Per una questione generazionale sono quasi tutti animali sociali da scrivania, insomma, che hanno goduto dei benefici postumi del ’68 e poi occupato postazioni di rilievo trasfondendosi (senza mai dichiararlo, per un’onestà intellettuale che non c’è mai stata) progressivamente nel blairismo da liberalcomunisti. A tal punto da trasmigrare (ovviamente a loro insaputa!) di fatto nei modelli di governo proprio del centrodestra, assorbendo di conseguenza il consenso di quel poco che rimane dell’ambito radical chic e dell’asfittica classe media. Di fatto la dirigenza del Partito democratico attinge, solo a mani alte, comunque, da queste fasce sociali, sempre più assottigliate e lontane culturalmente dai temi del bisogno stringente: antico e dignitoso tema della sinistra ora proprio del populismo di destra.
La fase amministrativa locale compresa tra il 2005 e il 2015 è l’esempio più eclatante della (con)fusione tra i modelli governativi di destra e di sinistra, la cui prova maestra è la perfetta continuità tra il Piano strutturale adottato dalla Giunta comunale di centrosinistra e la successiva approvazione della maggioranza di centrodestra.
Ma se il centrodestra è modernizzatore, la sinistra, sostanzialmente conservatrice, continua a parlare ancora attraverso i cattivi maestri, generati da quel ’68 che ha figliato l’arcipelago politico degli anni Settanta originato soprattutto dal desiderio, nemmeno tanto nascosto, di trovare “posti” da capo. Un processo lungo nel quale una miriade di microcellule politiche si moltiplicavano attraverso il meccanismo riproduttivo della mitosi, sdoppiandosi in aree politiche bisognose più che di militanti di un capo da contrapporre agli altri capi. Un qualcosa determinato in realtà dal fenomeno tutto politico dello sdoppiamento del capo, non certamente utile a incrementare il consenso ma a moltiplicarne il numero, fino al punto che la sinistra è diventata un sempre più minuscolo coacervo di capi per effetto della malattia endemica – con un neologismo, “capomania” – per la quale non è stato ancora trovato un vaccino specifico (forse per colpa della destra che è al governo e che volutamente ha fatto interrompere le ricerche scientifiche per farli estinguere da soli definitivamente e lasciare il posto a un suo vero condottiero!).
La “capomania” è, per esempio, la causa della profonda ostilità della sinistra di Lamezia nei confronti dell’Amministrazione Lo Moro, soprattutto durante il suo primo mandato. Una malattia che ha investito i vecchi conducator, che non accettavano il verdetto dell’elettorato e che volevano a tutti i costi contare ed essere determinanti nelle scelte amministrative. A questo, e non ad altro, è da attribuire l’origine, in sede locale, dell’ulteriore frantumazione della sinistra in mille frange (movimenti, associazioni o circoli), ognuna delle quali fa riferimento ovviamente a un capo con pochi adepti coptati in segreterie o organismi chiusi autocratici, via via sempre più piccoli che corrispondono esattamente ai pochi tesserati attivi. Per cui, la sinistra, divisa tra capi e piccoli capi, e per le conseguenti battaglie interne di famiglia, continua a perdere di vista i bisogni del nuovo elettorato di riferimento, che non è più il riconoscibile operaio massa, complicando un po’ le cose. Nonostante tutto ancora oggi, in ambito Pd, si invoca una "nuova dirigenza", ovvero nuovi capi, mentre l’elettorato potenziale – fatto soprattutto dalla moltitudine di fluttuanti operai sociali – ha già voltato le spalle.