Il grande miraggio. I nostri figli e l’università fuori dalla Calabria

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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Se chiedi loro “perché?”, ti rispondono con frasi fatte: “voglio andare via”, “qui non ci resto”, “ho diritto alla mia vita”, “non potete tarparmi le ali” e via cantando. Ma la spiegazione più ricorrente è: “qui non c’è niente”. Quel “qui” è la Calabria (e il Sud in genere). Ed a pronunciare quelle frasi, sono i nostri ragazzi, i nostri figli che, conseguita la maturità, intendono fare studi superiori fuori dalla Calabria. È il periodo delle partenze: il 37% degli studenti universitari calabresi, secondo Skuola.net, sceglie di studiare fuori regione nonostante le tre università pubbliche esistenti in Calabria. È il tempo delle rotture più o meno definitive dei nostri figli con la loro terra: chi va a studiare fuori difficilmente torna a lavorare e vivere in Calabria. È il tempo dei battibecchi sulla sede da scegliere: quasi sempre con il silenzio complice dei genitori. Quei genitori fingono di ignorare che, dopo aver speso un patrimonio (patrimonio che rappresenta l’ennesima emorragia economica dalle regioni povere verso quelle ricche) per mantenere i loro figli all’università nelle città del Centro-Nord, non li vedranno che raramente per tutto il resto della vita. E un giorno, se vorranno star loro vicini, se ne dovranno andare anche loro.  

Se credete, però, che dietro le partenze dei nostri figli per l’università ci sia sempre una necessità impellente, vi sbagliate di grosso. A mio parere, almeno tre quarti dei ragazzi calabresi che vanno fuori regione a studiare – in genere figli di persone che possono permettersi i costi di una tale scelta - lo fanno per un pregiudizio, per sciatteria intellettuale e morale, per moda. Ora non vi offendete se avete un figlio fuori: c’è anche, tra i nostri ragazzi, chi vuol prendere una facoltà che in Calabria magari non c’è; c’è chi vuole andare per forza in un’università famosa, chessò la Bocconi, la Cattolica, la Normale, c’è chi resterebbe ma ha un quoziente intellettivo così elevato che deve andare per forza a Roma o a Milano, perché qui siamo tutti dei “tamarri” o dei vecchi rimbambiti. E, ovviamente, non mi riferisco a quei tanti ragazzi che non possono o non vogliono fare l’università e se ne vanno fuori per trovare un lavoro. 

E noi giù a berci, commossi, la storia che non è giusto ostacolare le scelte dei figli. Ma è davvero una scelta quella di andarsene dalla Calabria prima di concludere gli studi? Perché sia chiaro: sono anch’io d’accordo che dopo l’università ognuno può andare dove gli pare a perfezionarsi, a lavorare e perfino a vivere. Oppure non è quasi sempre una fissazione prodotta dall’indottrinamento continuo dei persuasori occulti, primi fra tutti noi genitori che ogni santo giorno stiamo a lamentarci della nostra terra e a magnificare il resto del mondo occidentale? Una scelta dovrebbe essere fra due opzioni diverse ma ugualmente appetibili. Ma nei nostri (loro) ragionamenti non c’è alcuna possibilità di scelta. Perché dare per scontato che qui non c’è niente significa credere che la Calabria – e le università calabresi – sono i luoghi del fallimento e della morte civile. 

Se la pensate così smettete di leggere questo articolo: avrete certamente meglio da fare. Ma se vi viene qualche dubbio provate a ragionarsi su. Dei tanti giovani che ho visto andar via dalla Calabria dopo la maturità, la gran parte fa una vita ben peggiore di quella che avrebbe potuto fare qui (e l’ho sentito dire a tanti che tornano o vorrebbero tornare). Vivono in 50 metri quadri a costi esosissimi. Escono di casa la mattina presto, spesso costretti a lunghi spostamenti con mezzi strapieni, mangiano sempre fuori, tornano la sera tardi strafatti, giusto in tempo per sprofondare nel letto. Hanno costi doppi o tripli rispetto a chi vive in Calabria. Di solito diventano dipendenti di grandi aziende dove vengono spremuti per bene, per esser messi da parte più o meno legittimamente fra i 40 ed i 50 anni, quando diventano inservibili alle logiche della super-produttività e del profitto. Intanto non saranno riusciti a farsi una famiglia, ad avere dei figli. O, se ci riusciranno, sarà con enorme difficoltà. Vivranno in ambienti densamente abitati, inquinati, stressanti, iper-consumistici. Le loro vacanze, il loro tempo libero saranno per lo più dei costosi tour de force. Malediranno il loro lavoro – salvo casi limitati – un giorno sì e l’altro pure.

Ora, intendiamoci, non sto generalizzando, come ho già detto, e non idealizzo certo la Calabria. La nostra è una regione dove ci sono tante, troppe cose che non vanno. Ma, intanto, siamo riusciti a far istituire tre importanti università pubbliche. Che non sfornano solo avvocati, architetti, ingegneri, ma molte altre figure innovative di professionisti di cui la Calabria ha un gran bisogno. In secondo luogo abbiamo possibilità di scelta amplissime, se non pretendiamo a tutti i costi di avere un reddito da lavoro dipendente. Basta avere il coraggio di rinunciare al posto fisso ed allo stipendio, divenire imprenditori di sé stessi, essere creativi ed innovativi, individuare quelle attività vocazionali rispetto al territorio, aver voglia di mettersi in gioco. A questo aggiungi i minori costi e la qualità della vita. Evitate, vi prego, di presumere che stia ignorando i problemi dei servizi pubblici, le condizioni dei paesi interni etc.: non posso far qui una summa teologica. Vorrei solo insinuare qualche dubbio.

Mi capita spesso di conoscere, intervistare, raccogliere la testimonianza di piccoli e medi imprenditori di sé stessi che vivono dignitosamente facendo cose che nessuno immaginerebbe si possano fare in Calabria. Alcune anche di grande qualità. E non solo, come si potrebbe credere, nel turismo e nell’agricoltura. Qualcuna di queste persone è semplicemente rimasta. Qualcun’altra è tornata. Altri ancora sono approdati in Calabria e ne hanno fatto la loro patria.

I nostri figli no. A parte chi sceglie di studiare nelle università calabresi, a parte coloro che restano, a parte chi torna, gli altri scelgono di non scegliere. Già, perché all’origine di questa che – ribadisco - non è una scelta, c’è soprattutto un grande, irrisolto problema: qui quasi nessuno conosce la terra dove è nato, la sua storia, la sua letteratura, le sue tradizioni, i suoi problemi veri, le sue risorse. E non lamentiamoci, non spargiamo lacrime di coccodrillo quando accompagniamo i nostri figli nei non luoghi del partire dal Sud verso il Centro ed il Nord. Perché la colpa è principalmente di noi adulti, che siamo i primi ad ignorare e a non saper trasmettere ai nostri figli quelle conoscenze, quella passione, quella consapevolezza che servirebbero loro per fare una scelta vera fra il restare e il partire.    

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