Protetto dalla grande dea

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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 Sono solo. Spesso si è soli. Nonostante gli affetti, ci sono partite che solo tu puoi giocare con te stesso. E solitamente sono le partite più dure. Dunque, solo. Sarà un cammino solitario. Un'erranza come quelle che piacciono a me. Senza una meta precisa. Con solo un vago sentore di quel che farò.

L'essenziale è il cammino stesso, non la meta. Tutto è cammino. La vita è cammino. La fede è cammino. L'amore e la compassione sono cammini. Il cattivo tempo imperversa su tutta la regione. Inutile andare lontano. Oggi anche la mia montagna è immersa in un sudario plumbeo. C'è qualcosa lassù, che mi attira irresistibilmente. Ho percorso quella montagna decine di volte. Da ogni versante. Eppure non la conoscerò mai abbastanza. Ognuno, forse, ha la sua montagna. La montagna dell'anima. So che solo lì troverò conforto. E quella bufera che domenica scorsa era dentro di me, oggi mi attende sulle creste puntute di pini e di faggi.

Calpesto il sentiero soffice di foglie marcite. Risalgo il Piazza che brontola nel suo alveo pietroso. So che sto compiendo un rito. Sto sottoponendo me stesso a una prova. Ci vuol silenzio, e solitudine, per queste cose. La vedo. La mia cara cascata. La Tiglia, dal nome latino del tiglio (tilia). E' nella sua pienezza lustrale. L'acqua appare poco dopo il vento che da essa si genera. E' un alito che purifica. Sono nel ventre della Tellus Mater. E quello che sbianca la rupe è il suo liquido amniotico. Per me è sempre così: acqua e grotte e gole, mi fanno tornare feto. La condizione primeva dell'essere umano. Parte di un corpo che lo racchiude e lo protegge. Mi chiedo se non è proprio questa memoria fetale l'origine del culto della Grande Dea. Mi allontano dall'utero, ma la sua benedizione mi segue. Mentre m'innalzo sulle pendici boscose, tra i campi coltivati, la terra grassa, gli oggetti abbandonati dal contadino, gli alberi, le pietre. Poi le case di pietra, dirute, sfondate. No, non è il terremoto o la neve. E' l'abbandono. Questi luoghi hanno nutrito generazioni di umani e ora sono perduti, dimenticati. E poi più in alto ancora, dove erano altri coltivi, il grano, i castagni. E le foreste. E i pascoli. Entro nella neve. E nelle nuvole. E mentre fatico e sudo, sento un vento che sferza le chiome degli alberi. E arranco nella neve, sempre più alta. E giungo sul crinale nebbioso dove infuria la tempesta. Assisto come ad una rappresentazione arcaica, ancestrale, mitica. E io ci sono dentro. Sicuro come fossi a casa. Protetto dalla dea.

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