Le ghiotte eccellenze di una cucina “plurale”

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Gianfranco Manfredi

di Gianfranco Manfredi

Un brindisi col Donna Madda, il cru cirotano della Fattoria San Francesco di Francesco Siciliani.

Settantaquattro pagine per quattordici piatti che raccontano la Calabria, anzi le Calabrie delle più gradevoli emozioni gustative. Che parlano calabrese e ne svelano, ai più alti livelli, i tanti accenti e le tante cucine. Quattordici modi prelibati di dire “ci siamo”, di proporsi senza più timidezze nè complessi di sorta. Quattordici ghiotte testimonianze che svelano rigorose interpretazioni di una cucina identitaria e, al tempo stesso, non più ingabbiata dalla tradizione-ad-ogni-costo ma libera di esprimersi con creatività e con le tecniche più attuali. Nel bel volume “Intorno a Ferrocinto”, curato da Giovanni Gagliardi e Paolo Marchionni insieme al bravissimo fotografo francese Stephane Aΐt Ourab, edito da Rubbettino, c’è una galleria tutta calabrese con gli squisiti piatti di cucinieri (chef è ormai abusato…) coraggiosi e innovativi, che hanno le radici ben piantate nella tradizione, le mani in pasta nella contemporaneità ma la testa decisamente orientata al futuro. I nomi? Eccoli subito: il De Gustibus di Palmi, Filippo'S di Vibo Valentia, il Gambero Rosso di Marina di Gioiosa Ionica, l’Hotel Aquila e Edelweiss di Camigliatello Silano, La Locanda di Alia di Castrovillari, La Tavernetta di Camigliatello Silano, L'Approdo di Vibo Marina, L'Aragosta di Marina di Nocera Terinese, il Lido Sabbia d'Oro di Belvedere Marittimo, il Pantagruel di Rende, il Ristorante dell'Hotel Barbieri di Altomonte, la Taverna Kerkira di Bagnara Calabra, la Trattoria Max di Cirò Marina e L’Antico Caffè Renzelli di Cosenza. In questo bel volume patinato, arricchito da splendide foto e della storia di produttori, vini e ristoranti, ci sono le storie di uomini e donne dell’enogastronomia calabrese. Loro, i loro prodotti (le uve e i vini innanzitutto) e i territori che li esprimono. A cominciare da Ferrocinto, la tenuta-simbolo che si stende ai piedi del Pollino, dominata da un’antica, elegante villa fortificata, giù fino alla “taverna” (lui si ostina a chiamarla ancora umilmente così) calabro-greca di Fulvio Dato a Bagnara. Il libro è un vero e proprio viaggio in una terra che forse pochi conoscono veramente e che, dopo averla visitata, posso dire che merita davvero attenzione, non solo per gli splendidi paesaggi, ma anche per le storie di donne, uomini ed aziende, nonché per le ottime e originali produzioni enologiche. L’ho già ribadito più volte: anche a tavola non si può parlare di Calabria ma delle Calabrie. Anche le cucine di ristoranti e trattorie riproducono l’immagine di una regione che, se per un verso è consegnata all’immaginario collettivo in una unitarietà mitizzata - ma anche spesso sottovalutata –, in realtà è caratterizzata da una varietà di situazioni e di ambienti che ne fanno uno spazio complesso e variegato, ancora in larga parte da esplorare. Ricordo che forse in nessun’altra regione fenici, greci, romani, arabi, normanni, bizantini, spagnoli e francesi, albanesi, provenzali e piemontesi, hanno lasciato in un ambito così ristretto tante tracce delle loro presenze. Storico crocevia tra Oriente e Occidente e tra Nord e Sud, pure in cucina la Calabria si rivela, in definitiva, tappa obbligata, millenaria terra di transito d’Italia, d’Europa, del Mediterraneo. E sottolineo che coltivazioni e cultura del cibo testimoniano esaurientemente che qui si sono mescolate e stratificate influenze, culture e tradizioni, certo in qualche misura sopraffatte o minacciate d’estinzione ma ancora in buona parte vive e vivaci e persino, in qualche caso, assolutamente da scoprire. Sono innumerevoli, infatti, le sollecitazioni che hanno modificato, arricchito, alleggerito e affinato una cucina dall’anima “povera”, contadina e pastorale, dai sapori netti, intensi, a volte delicati ma più spesso aspri e decisi. Quasi sempre, non facili, comunque, e destinati a rimanere impressi nella memoria. La tradizione, indagata e analizzata a fondo da studiosi come Ottavio Cavalcanti e Vito Teti, è testimoniata ampiamente dalla letteratura. In proposito amo citare Leonida Repaci: “Datemi una buona minestra di ceci, quelli che si ammammano, cioè fan da mamma, coi maccheroni, in una saporosa liquescenza – scriveva il creatore del Premio Viareggio -; datemi una fetta di pescespada col ‘sarmuriglio’, che ci stupiamo di non trovare descritto nei banchetti omerici (…); datemi una ricotta di quelle che il pastorello dell’Aspromonte vi porta fino a casa, facendola colare tiepida dalla fiscella nel piatto, datemi, per consolidare il tutto, un bicchiere di Cirò, un vino che ha il colore rosso cupo delle pupille delle donne malate d’amore e il profumo del vigneto squassato dal vento sulle balze marine: datemi tutto questo e io alzo bandiera ammiraglia sulla mia tavola di calabrese radicato”. Come brindare appropriatamente a questo nuovo reportage enogastronomico sulla Calabria? Propongo un rosso d’alta gamma, un cru direbbero i francesi, che è un antesignano della rinascita enologica calabrese. Parlo del Donna Madda un taglio di gaglioppo ( 80%) con un resto paritario di merlot e magliocco. Le uve vengono da vigneti selezionati nella zona più classica di Cirò e Cirò Marina. L’azienda è la Fattoria San Francesco, un antico presidio di buon enelogia. Il fondo San francesco era un convento del 1578 al centro di vigneti e uliveti, passato di proprietà a Benedetto Siciliani alla fine del 700. L’ultimo suo discendente, Francesco, dottore in giurisprudenza e vignaiolo per passione e tradizione, si è distinto per la sperimentazione sui vitigni autoctoni e l’affinamento del gaglioppo in botti di rovere. Fa parte del gruppo di testa dei viticultori-coraggio del Sud Italia e produce top-wine pluridecorati. Il suo Donna Madda è davvero notevole. Intenso e persistente, nel calice sprigiona effluvi ampi di frutti rossi e speziature (cardamomo e pepe nero). Assaggiatelo alla giusta temperatura con un pecorino crotonese stagionato da latte crudo o con un capretto in umido e mi ringrazierete.

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