Lamezia e Galullo

Scritto da  Pubblicato in Giovanni Iuffrida

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Iuffrida_matita di Giovanni Iuffrida

Recentemente (esattamente il 2 luglio 2012) sul suo blog, Roberto Galullo ha scritto che, a proposito di toponomastica, via del Progresso si dovrebbe chiamare “via del Regresso”, non solo perché rappresenta la capitale delle rotatorie, ma soprattutto perché è un crocevia di traffici. Una strada stretta, come è stretta in generale la via della verità a Lamezia. Se si fa un confronto tra i vani tentativi, di ben trent’anni fa, di far digerire la necessità di rispettare le distanze dal ciglio stradale per consentire, con un adeguato arretramento delle recinzioni, una sede stradale moderna a quattro corsie (idea poi ripresa alla fine degli anni Novanta da uno studio urbanistico), e l’attuale condizione di quell’ampio quartiere che prende il nome di Scinà, si può ben capire l’involuzione dell’assetto della città.

È ormai da tempo che Roberto Galullo, giornalista de “Il Sole 24 Ore”, dedica parte del suo tempo a Lamezia, capitale mancata della Calabria, ma di fatto città del capitale dove si decidono sorti politiche, economiche, massoniche, affaristiche e mafiose. Secondo Roberto Galullo, ci sono più ragioni perché Lamezia possa rivendicare il ruolo di capitale: “è una delle capitali mondiali dei traffici di ogni tipo, a partire da quello di armi e droga; è la capitale degli intrecci tra affarismo e malapolitica; è la capitale di investimenti milionari da 488/92, una legge che ha permesso a centinaia di truffatori di arricchirsi; è la capitale dell’abusivismo edilizio alimentato dalle cosche, da un’intera città e da un nugolo di politici che hanno chiuso gli occhi fottendosene di tutto e magari sfilando nelle marce antimafia”. L’attenzione su Lamezia non si esaurirà – scrive Galullo – perché “Lamezia è una delle capitali mondiali della cupola massonico deviata-mafiosa-politica che erode giorno dopo giorno la società”. La sua non è una minaccia, ma una necessità di cronaca, perché nonostante sia la città più sottoposta a forti venti di tramontana, tanto da esser assurta recentemente a patria privilegiata del kitesurf, soffia sempre più insistentemente un venticello costante che toglie il respiro: il sistema mafioso diffuso, sostenuto e finanche patrocinato dalla politica, che emerge, con forza e incisività, non nella forma di mafia delle pallottole e degli attentati intimidatori alle serrande dei negozi ma in quella che controlla in maniera silente il territorio, rispetto alla quale anche l’opinione pubblica, ormai impotente e rassegnata, tende a volgere le spalle tanto da non vederla più come un’emergenza.

Lo stesso Roberto Galullo ha concluso il suo intervento sostenendo che Lamezia è città antimafia e paladina della legalità “solo sulla carta se non fosse, spesso, per la sola magistratura o quasi”. Come se volesse dire che il Tribunale di Lamezia andrebbe accorpato a quello di Bolzano. I quotidiani del 17 dicembre 2011 hanno riportato che la Procura ha chiesto la collaborazione dei cittadini “anche in forma anonima”, per rompere il muro dell’omertà. Questioni relative ai massimi sistemi della mafia. Ma come fa un cittadino normale a fidarsi delle istituzioni se il senso di legalità non attraversa tutta la vita quotidiana, nelle manifestazioni più semplici? Se il cittadino “normale” si sente continuamente sbeffeggiato da chi ottiene quello ciò che vuole impunemente, come può rompere il muro dell’omertà? Soprattutto se emerge la consapevolezza che Lamezia è anche la città, definita anni fa capitale dell’abusivismo edilizio legalizzato in tutte le forme, dove la parola legalità è pronunciata spesso come un fastidioso tic, un intercalare verbale che ricorda il “cioè” sessantottino.

Lamezia non è soltanto ciò che descrive Gianluca Ferraris in Gioco sporco (Baldini Castoldi Dalai, Milano 2011): una città altamente inquinata dalla mafia propriamente detta. Ma è soprattutto Antonio La Spina (Mafia, legalità debole e sviluppo del Mezzogiorno, Il Mulino, 2005) che dà una risposta significativa a tutto, sulla base di due concetti: “Il primo è quello di soft State, o Stato “molle” […]. Si tratta di un apparato pubblico (la categoria comprende anche eventuali livelli di governo sub-nazionali) caratterizzato da una sistematica incapacità di fissare e far osservare norme autoritative, incapacità cui corrisponde, nella cittadinanza, un diffuso atteggiamento di indisciplina e resistenza psicologica verso l’obbedienza alla legge. Stati del genere producono norme porose, ricche di deroghe e scappatoie, suscettibili di applicazione altamente discrezionale e particolaristica, che non individuano in modo preciso obblighi definiti a carico dello Stato e dei cittadini”. Un quadro chiarissimo, se non fosse per i dubbi che le istituzioni hanno su chi ha da tempo le mani sulla città.

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