Brani di paesaggio agrario

Scritto da  Pubblicato in Giovanni Iuffrida

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Iuffrida_matita-OK_0e788_db425_50701_ad838_a3ec4_50f5e_39a7a_13eda_4fdc6_624ba_cd20f_d090e_68191_ef208_86daa_446de_c41db_74bf5_32fa5_e8968.jpgL’involuzione del paesaggio agrario della Piana dal secondo dopoguerra è, per molti versi, l’esito dell’esigenza politica di mettere in pratica la netta distinzione, il più rapidamente possibile, dal fascismo. La fretta di applicare in tutti i campi la regola “antifascismo totale”, speculare però al fascismo totalitario, è certamente una stringente necessità, soprattutto di natura psicologica e di comunicazione.

Lungo questa linea interpretativa, l’architettura organica subentra prepotentemente al credo razionalista e invade il territorio che, grazie alla plasmabilità del cemento armato, assume forme libere, espressione della giovane e ancora fragile democrazia. Aggetti, forme irregolari, senza una precisa e rigida regola geometrica, tetti approssimativi in eternit si sostituiscono al rigido modello delle case coloniche realizzate durante il fascismo (nella Piana se ne contano venticinque). E la riforma agraria del dopoguerra oltre a tentare di ancorare inutilmente i contadini alla terra nel momento sbagliato – cioè mentre la forte ripresa industriale del nord del Paese stimola di fatto la rapida fuga dalle campagne di centinaia di migliaia di calabresi – dissemina nella Piana casette prive di dignità abitativa e caratterizzate da pretenziosi aggetti in nudo cemento armato. Emerge, in queste espressioni di mera edilizia, la povertà di materiali irrispettosi della terra che respingono qualsiasi idea di abitabilità. Le soluzioni adottate sicuramente contribuiscono a rendere sterili di prodotti e di uomini anche le terre più fertili; oltraggiano i poveri contadini e li sollecitano ad un rapido abbandono della terra. Tutto questo sicuramente favorisce l’industria del nord, che assorbe a basso costo braccia ben disposte ad abbandonare le vecchie case dai muri anneriti dal fumo dei focolari all’aria di ceramidi [senza canna fumaria] o le “nuove” case della trasformazione fondiaria con i tetti piani infuocati dal sole e l’odore acre del DDT americano. 

Fino al 1930, nella Piana pochissime erano le costruzioni ereditate a partire dalla seconda metà dell’Ottocento (i “casini” Bongiorno, Bevilacqua, Perugini, Ciriaco, Antonetti, Terzi, Campolongo, Trigna) e soprattutto pochissime le “torri”, molto diffuse nel cosentino, rare nel catanzarese e con interessanti connotati stilistici lungo la costa del vibonese. Una torre piccolissima, spesso di due soli ambienti, una stanza a piano terra e una al piano superiore con scala esterna, si trova ancora oggi, con una struttura di approssimativa qualità edilizia, in località Conca; un’altra costruzione, di maggiore pregio, è nota come “torre Nicotera”, ormai diroccata ma ricca di memoria storica, essendo stato l’unico ricovero disponibile durante le operazioni della battaglia di Maida, che sconvolgerà la Piana con l’intenso movimento di truppe lungo l’Amato.

Una descrizione di un antico modello edilizio di pregio architettonico è rilevabile da un documento di agosto 1788 a firma degli «esperti di fabbrica» Giuseppe Riga e Giuseppe Frangipane. Il resoconto dei lavori eseguiti dal patron Erasmo Vinci di Pizzo contribuisce a delineare il quadro dell’edilizia rurale storica «non voluttuosa ed inutile» e di pregio paesaggistico che gravita intorno alla Piana.

Il nucleo edilizio sul fondo “Lenza delle Ficare” si riferisce ad un modello settecentesco molto diffuso lungo la Costa degli Dei, con «torre, forno, cancello ed altre fabbriche». L’interessante descrizione fa riferimento ai lavori eseguiti all’«uso del Regno», cioè in base alle nuove norme impartite dal governo borbonico, con «baraccatura, calce e pietra». I materiali usati sono significativi del rapporto con la natura dei luoghi e del paesaggio. Sono di castagno, per esempio, le «travi per uso di colonne […] i travettini per uso di catene sotto il pavimento […] travi di pavimento», poi «i filicroni per legare il telaro à catena nella sommità […] legname per la divisione, o sia intelata (tramezzo, ndr) delle due camere superiori […] legname anco di castagno per la copertura di detta torre, correnti, cerboni, forbici, spiconi, e filiere […] travetti per uso di catene attorno le camere […]». Non mancano ovviamente le tegole e «i chiodi grossi o siano perni per imbaraccare detta torre […] chiodi piccioli, volgarmente detti di centinaro […]». Poi la descrizione del forno e del cancello «di fabbrica di pietre e calce sito nell’entrare di detto fondo», che segue fedelmente una tipologia molto diffusa: «con porta di detto cancello di castagno […] un muraglione di pietra in secco a’ fianchi del cancello per chiusura dello stesso e sostegno di terra […] una lamia (arco, ndr) di fabbrica di pietra e calce avanti il cancello che serve di ingresso […] un forno di fabbrica e quattro pilastri nell’angolo di pietra, e calce per sostenere la copertura […]».

Sono poi molto interessanti le considerazioni finali dei rilevatori Riga e Frangipane, che offrono elementi di riflessione sulle modalità di conduzione dei fondi, sulle produzioni, sull’organizzazione complessiva delle campagne. In particolare, il documento testimonia la necessità ed utilità delle «torri e fabbriche» rurali, che sono «utili e necessarie […] si’ per l’abitazione del colono, siccome di presente colà si ritrova situato colla sua famiglia per custodire detti fondi, si’ ancora per la conserva delli frutti delli stessi fondi, attrezzi di campagna, di paglia, trappitello ed altro bisognevole». Notizie importanti riguardano le colture praticate, la notevole diffusione delle “torri”, la presenza pressoché costante di ingressi in «pietra e calce», che introducono nei fondi rustici e da cui è anche misurabile l’importanza e la dignità sociale del possessore. Ingressi spesso caratterizzati dalla presenza di un arco a sesto ribassato o a tutto sesto e, poi, nei pressi della “torre”, il forno: elemento, quest’ultimo, di costruzione del senso di comunità, in quanto utilizzato anche dai braccianti non residenti.

Lasciamo parlare il documento: «e finalmente per il nutricato della seta per esser detti fondi molto vasti ed alborati di varj gelsi, e perché nei convicini fondi di minor prezzo si ritrovano parimenti consimili torri, non essendo permesso poter delle stesse far uso, se non che a’ rispettivi padroni. E rapporto al forno e cancello con suoi muri attorno abbiamo giudicato siccome giudico parimenti esser necessari per la chiusura di detti fondi, nonché per potersi il colono cuocere il pane, ed asciuttare i fichi, che vengono bagnati dalle piogge, allorché si fanno nel sole seccando unitamente coll’uva passa […]». Un modello architettonico e organizzativo che andrebbe recuperato e valorizzato, sia per la valenza paesaggistica che economica, premiando il coraggio e il sacrificio di chi ha ancora il desiderio e la forza di conservarne la memoria, con evidenti riflessi a vantaggio soprattutto della collettività. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA