L'anello del Macrocioli: raccontare le montagne fa bene alle montagne

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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francesco-bevilacqua-foto-blog-nuova_80da1_19973_ea258_59f1c_e96f0_cec4f_df014_db513_eb6b5_f8fb1_2c83a_da5cd_ac61d-1_c49d8_8565a_1a702_73902_90cc3_d8d69_c1afb_508ed_14fbf_1602e_c1835_27877_1f47f_c6130_553d9_7ee8b_d4abb__.jpgPensate all’immaginario collettivo di tutta l’Umanità senza il racconto delle montagne. Ogni sacra scrittura mette al centro della sua narrazione una montagna: l’Olimpo era la dimora degli dei dell’antica Grecia; sul Sinai Mosé riceve la Tavole della Legge; sul Tabor Gesù si rivela come figlio di Dio; il Fuji è la sede della dea Sengen-Sama, l’Annapurna ospita la dea Parvati… Gli antichi egizi, che non avevano montagne, si videro costretti ad erigere dei loro simulacri: le piramidi. In letteratura fu il Petrarca, con la sua ascensione al Monte Ventoso il 26 aprile del 1336, a inaugurare la grande tradizione dei “récit d’ascension”, i cui canoni saranno poi definiti da Massimo Mila. Se guardiamo alla grande cultura della montagna d’oltre oceano come non ricordare la wilderness di Henry David Thoreau, John Muir, Aldo Leopold diffusa attraverso scritti memorabili? In epoca moderna Fernand Braudel, il grande storico del Mediterraneo, inizia la sua opera più famosa con un “innanzitutto le montagne”. E giù una sequela di nomi di grandi massicci orografici: “le Alpi, gli Appennini, i Balcani, il Tauro, il Libano, l’Atlante, le catene delle Spagna, i Pirenei”. Che fanno di quel luogo così evocatore non un mare in mezzo alle terre ma un “mare in mezzo alle montagne”. E sempre Braudel, in un altro suo libro, aggiunge che “la montagna è il luogo di elezione per la conservazione del passato”. Come a dire che la storia del Mediterraneo è scritta sulle montagne e che il passato delle montagne è pieno di storie da tramandare. Ma anche in tempi più vicini a noi, in Italia tanti sono i grandi narratori che hanno ambientato loro racconti in montagna: pensiamo solo a da Dino Buzzati o a Mario Rigoni Stern, sino a contemporanei come Mauro Corona o Erri De Luca sino al giovane Paolo Cognetti. Per non parlare di chi con articoli e libri ci guida ripetutamente a capire le montagne ed a scoprirle attraverso i sentieri; solo alcuni nomi: Stefano Ardito, Marco Albino Ferrari, Paolo Piacentini. Ed in Calabria, non è forse proprio la montagna, la sua cultura, la sua civiltà al centro della nostra grande letteratura? Penso a Vincenzo Padula, Nicola Misasi, Corrado Alvaro, Francesco Perri, sino ad arrivare a Gioacchino Criaco. E mi piace concludere con una piccola donna che accompagna persone alla scoperta dell’Aspromonte con un motto emblematico: Noemi Evoli con i suoi “Passi narranti”.

Su tutto questo rifletto oggi mentre il più schivo, silenzioso, umile “narratore” della Sila Greca ci conduce lungo un antico sentiero perduto che dalla valle del Macrocioli s’inerpica perso i pianori di Erbuzzietto. Per Sasà Pellegrino riscoprire gli antichi transiti di pastori, contadini, carbonai, mercanti è missione di vita. E condividere sensazioni, emozioni con pochi amici fidati è la sua gioia più profonda. Perché mentre saliamo silenziosi fra i faggi, gli abeti bianchi, i pini, gli aceri, fra i tornanti sapienti del sentiero, che solo gli uomini più esperti di Longobucco sapevano tracciare e mantenere, per poi, traversato “Il Fagheto”, improvvisamente, valicare l’orlo delle “conche di Macrocioli”, egli legge sui nostri volti lo stupore per tanta bellezza, la condivisione di tanta lezione di vita che da questi luoghi aspri si riversa nelle nostre anime. Sotto un cielo di piombo, sulla prateria spazzata dal vento, sostiamo in religioso silenzio, con davanti le groppe dei rilievi che scendono, nell’ombra e nella solitudine, verso le bassure dello Ionio, con al centro la bianca lingua detritica del Trionto. Sulla pendice di fronte a noi, centinaia di capre, seguite dal pastore e dai cani, sfilano lentamente, con i suoni iterativi e malinconici dei campanacci, che fanno vibrare ricordi ancestrali dentro il nostro petto. Scendendo fra le balze di un altro antico sentiero, penso che, forse, la ragione del bisogno di narrare le montagne sta proprio qui, fra queste austere navate arboree, fra questi paurosi dirupi, fra questi panorami sconfinati, dove la materia si fa spirito e dove lo spirito diviene materia.

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