La mie prime al teatro alla Scala e alla Fenice

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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 Colle Marcione, Civita, Calabria. Ore 9 di un freddo mattino di dicembre. Dopo la neve. Poltronisima di prima fila. Più fortunato che se stessi nel palco presidenziale di una prima del Teatro alla Scala. A guardare lo spettacolo non c’è alcun rischio che mi addormenti, come invece accade, puntualmente, quando mi trascinano a cinema o a teatro. Quel che vedono i miei occhi ha un effetto nemmeno lontanamente paragonabile alle più belle e sontuose luminarie di una grande capitale europea. Inverno, sole, gelo hanno addobbato la valle. Come se uno scenografo, a bordo di un enorme, silenzioso velivolo, avesse cosparso di luce, colori e polvere d’oro tutta la valle, le gole, le montagne, i boschi. Un enorme anfiteatro naturale. Con al centro la grande arena fatta di declivi e pianori che digradano verso il fondovalle del Raganello, ancora immerso nell’ombra. Un mondo arcaico, appartato, silenzioso. Potente e severo, quel tanto che basta da aver tenuto a bada l’uomo per secoli. Pur avendogli consentito di vivere qui con poche famiglie, in masserie sparse. Chi fa la strada che ho percorso io stamane o è uno degli ultimi contadini-pastori di quassù, o è qualche camminatore folle che aborrisce gli accessi più noti e turistici al cuore del Parco Nazionale del Pollino. Si deve possedere un robusto fuoristrada per percorrere i venti chilometri di strada che da Civita portano nel “mondo perduto” di Conan Doyle. Perché mai nessuno ha riconosciuto a questi uomini e donne ostinati lo stato di cittadini. Potremmo dire che i massari dell’alta valle del Raganello appartengono agli ultimi popoli primitivi, anzi quasi incontattati d’Europa. Restano in quelle case di pietra, a sistemarle anno dopo anno, ad accudire gli orti, i coltivi, gli animali, ad andar su e giù in vecchi fuoristrada scassati, a rimanere isolati durante le nevicate invernali, a fare “trekking” con le loro capre e le loro pecore. Ogni giorno e con ogni condizione atmosferica. Qui lo Stato non è mai venuto. Eppure, a Colle Marcione c’è la poltrona riservata per il Presidente della Repubblica.

A costo zero. A volte penso che lo Stato, in realtà, lavori perché questa gente sia costretta ad andar via definitivamente da qui: troppo complicato portare loro i servizi essenziali; troppo difficile controllarli; impossibile omologarli e lobotomizzarli come si fa nei paesi e nelle città. Son convinto che questi uomini e queste donne preferirebbero restare incontattati, come certe piccole tribù andine o amazzoniche. Perché di idioti come noi non saprebbero che farsene … al momento. E certo, idioti appariremo anche noi oggi – in senso dostoevskijano - se ci presentiamo quassù quando la temperatura è sotto lo zero e tutta la Foresta della Fagosa è strinata dalla galaverna. E quando le grandi pareti delle timpe orientali sono incrostate di ghiaccio. E quando sulle cime occidentali è arrivata la neve che resisterà ormai per tutto l’inverno. E idioti siamo se veniamo quassù non per mettere in salvo dal gelo gli animali o portare aiuto, ma solo per lasciare l’auto e beccarci mille metri di dislivello fra boschi e rupi per giungere in cima ad una montagna. Più che da idioti, i locali ci trattano con un misto di curiosità e di commiserazione. Lasciamo l’auto in un delizioso boschetto di cerri. Da dove si domina tutta la valle. Proseguiamo a piedi per vecchi pascoli e campi di grano incrostati di neve e ghiaccio. Tutto pare essere entrato in letargo. Tranne la luce, che chiama il mondo alla vita. Raggiungiamo la sterrata per Casino Toscano, con la veduta alpestre della parete est di Serra delle Ciavole. Saliamo nel silenzio strinato e imbiancato della faggeta, sino alle prime radure erbose che preludono alla Grande Porta del Pollino, il valico di chi traversava dalla Basilicata alla Calabria e viceversa. Un altro folle sale in solitaria da Lago Duglia, Michele Custodero. Siamo un solo gruppo quando valichiamo l’orlo del passo ed entriamo nell’altro grande teatro (deve essere La Fenice di Venezia), che si chiama Piani di Pollino. Gli attori più vicini al pubblico si sono messi in posa. Movimenti impercettibili nel vento gelido da nord-ovest che ci investe. Sono salitori lentissimi e molto, molto vecchi.

Attraversiamo tutto il loro palcoscenico, da Serretta della Porticella sino alla cima di Serra di Crispo, dove stanno gli attori più bravi, gli dei della montagna. I faggi non osano infastidirli qui, a oltre 2200 metri di quota. Dove il terreno è povero e pietroso e il clima inclemente. Solo i profumati e pungenti pulvini di ginepro resistono. Sono i pini loricati, che ci guardano dalle loro posture da pachidermi. Ci considerano anch’essi con commiserazione: non hanno animali da accudire, ma vigilano sui semi che il vento ha sparso intorno e che garantiscono la prosecuzione della loro specie. Procedere sulla cresta è tutto uno scrutare l’orizzonte: Gli Alburni, il Sirino, la Spina, l’Alpi, il Raparo, la valle del Sinni, Timpa di Pietra Sasso, il Canyon del Sarmento, il lago di Monte Cotugno, il crinale di Toppo Vuturo, la Falconara, lo Sparviere, la Timpa di San Lorenzo, la valle del Raganello le Timpe di Porace e Cassano, il Sellaro, e la Sila lontana, e la lunga dorsale del Dolcedorme e della Manfriana, e il Pollino, Serra della Ciavole e Serra del Prete, e uno spicchio dell’Orsomarso. Nonostante l’ora tarda e le prime ombre della sera, Michele ci conduce in una breve erranza, giù dalla sella fra Serra di Crispo e Seretta della Porticella sino al laghetto ghiacciato di Piano dei Moranesi e poi fino a Casino Toscano. Michele ci lascia per tornare verso Lago Duglia. Proseguiamo verso il punto di partenza che il sole già tramonta dietro il crinale della Manfriana. Nella boscaglia soprastante un pastore, uscito anche col gelo, incita il suo gregge a rientrare. Grossi cani latranti osservano vigili noi intrusi. E’ il momento dei commiati: ognuno degli aspiranti incontattati primitivi, dei richiedenti asilo, degli stanziali erranti, dei monaci eremiti … sa di dover lasciare i tanti posti in prima fila nel teatri più bello del Sud. Per tornare alle strade illuminate scioccamente, allo sguaiato rito dello shopping, delle abbuffate, del festeggiare non so che, dello sparare botti, del saltare come indemoniati allo scadere della mezzanotte, dell’inondare di selfie goderecci e insulsi il povero mondo attonito. Terre, montagne, fiumi, oceani, valli, uomini e donne che lottano ogni giorno per sopravvivere all’incommensurabile stupidità dei sapiens. Che guardano tutto questo brulicare di umani come alla più grande catastrofe mai accaduta al Pianeta dacché fu il big-bang.

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