Lamezia creativa

Scritto da  Pubblicato in Giovanni Iuffrida

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Iuffrida_matita-OK_0e788_db425_50701_ad838_a3ec4_50f5e_39a7a_13eda_4fdc6_624ba_cd20f_d090e_68191_ef208_86daa_446de.jpgLa creatività secondo Bruno Munari va collocata insieme all’immaginazione, la fantasia e l’invenzione e riguarda «tutto ciò che prima non c’era e risulta realizzabile». Questa definizione offre una interessante chiave di lettura della realtà che ci circonda, a qualsiasi latitudine. Enzo Mari, un allievo di Bruno Munari, è andato persino oltre, sostenendo che non vi sia parola più oscena della parola “creatività”. E non ha tutti i torti.

Nel caso specifico del territorio lametino si ha una plastica dimostrazione della costante applicazione di questo concetto di creatività, agevolata soprattutto laddove sono esistiti spazi liberi. Senza distinzione di appartenenza (politica, sociale, ecc.), si è potuta esercitare la creatività secondo la definizione citata, in forma assolutamente libera, senza vincoli e, soprattutto, senza la mediazione di alcun attributo culturale. Una costante dell’agire politico (tradotto poi nell’agire sociale, collettivo) ha dimostrato, nello stesso tempo, l’incapacità di governo del territorio: qualità che di per sé presuppone lo sforzo del dialogo tra esigenze funzionali, la “qualità” dei luoghi e i vincoli imposti spontaneamente dalla natura attraverso le sue (ripetute, cicliche) lezioni nel tempo, quasi sempre troppo tardi tradotte in principi giuridici. A questo scollamento spazio-temporale è da attribuire la forma della città nel suo complesso, in evidente conflitto con la natura dei luoghi.

Nella maggior parte dei casi, sarebbe stato sufficiente integrare la “creatività”, secondo il concetto munariano, con una coerente osservazione del territorio, anche limitandosi alla lettura della sua forma sedimentata nel tempo. Il centro storico di Sambiase è, per esempio, uno dei casi concreti e più evidenti in cui la sapienza popolare ha costruito, assecondando la forma che la natura ha via via “assegnato” al territorio, un assetto urbano assolutamente spontaneo ma rispondente alle “esigenze” (note, per effetto degli eventi naturali) dei corsi d’acqua. Le antiche maestranze del centro storico di Sambiase, in poche parole, hanno utilizzato solo il “buon senso” derivato dalla traduzione dell’esperienza nelle forme architettoniche coniugate quasi sempre con le esigenze della giacitura, definendo progressivamente la forma urbana dettata dalla legge non scritta del rispetto della natura dei luoghi. Questa è diventata col tempo la “regola” comune del costruire; un obbligo autoimposto dalla stessa comunità che, peraltro, fruiva della qualità espositiva, senza il bisogno di fare ricorso alla creatività, dei primi insediamenti monastici, ispirati da esigenze spirituali ma animati dall’intelligenza sedimentata di una vasta esperienza costruttiva nazionale.

Al di là del confine del centro storico, la creatività, nel senso munariano, ci presenta dal secondo dopoguerrra invece un’”altra” Sambiase, assolutamente non confrontabile con la sapienza costruttiva degli antichi maestri muratori e scalpellini. Nonostante tutto, l’impianto del centro storico di Sambiase rimane una lezione en plein air dell’urbanistica senza architetti. Forse non a caso un grande architetto poco legato all’esercizio della libera professione, Léon Krier, nel secolo scorso ha paragonato il centro storico di Sambiase a un’armoniosa melodia musicale.

Un esempio di “creatività” totale (statale, regionale, comunale, del professionismo ambientalista, di scrittori, poeti e naviganti) è l’area industriale di Lamezia, dove molti, fino a poco tempo fa, si sono esercitati in una paradossale competizione creativa (a dire il vero, recentemente è stata registrata per l’area ex Sir l’unica voce dissonante dell’Associazione Costa Nostra a molti anni di distanza dalle dure posizioni di una parte della Cgil). Oggi, grazie a sorprendenti e spericolati esercizi di creatività, nel recinto di questa area si può (e si potrà) trovare di tutto, come in una pattumiera dell’indifferenziata. Attività agricole di pregio, servizi (centro congressi, laboratori, centro protesi, Film Commission, ecc.), attività turistico-residenziali, piattaforme depurative, le prime pale eoliche sperimentali e parchi fotovoltaici, centro di raccolta rifiuti e connesse attività di recupero e riciclo, ecc. Una strana “uguaglianza” urbanistica (un tempo si sarebbe dovuta chiamare “zona disomogenea”, frutto di paranza con rete a strascico), realizzata con un caleidoscopio di destinazioni tra loro incompatibili, anche se recintate da siepi e alberi per sedare le autorità paesaggistiche già “allodolate” da fantasmagorici rendering tesi a rappresentare inverosimili realtà in perenne conflitto.

Oggi più di ieri, emerge con estrema chiarezza che l’esercizio della fantasia, dell’immaginazione, della creatività ha fatto e fa male all’occupazione, al paesaggio e al territorio nella sua globalità. Per evitare scelte sbagliate sarebbe stato sufficiente dialogare con la natura dei luoghi, e per i più pigri sarebbe bastata (forse) la semplice lettura dell’articolo di Giovanni Russo, C’è un’altra Gioia Tauro in Calabria. Anche a Sant’Eufemia Lamezia un caso di industrializzazione sbagliata, in «Corriere della Sera» dell’1 luglio 1977 e, nel giorno di Nostra Signora del Monte Carmelo, della riflessione di Fabio Isman, in «Il Messaggero» del 16 luglio 1977, Il posto delle fragole. Una storia italiana: Lamezia Terme. Come un eventuale insediamento potrebbe distruggere una delle migliori colture europee. Un posto dove le attività agricole intensive occupavano dieci addetti ad ettaro, in una Calabria con un quadro occupazionale non dissimile da quello attuale, descritto recentemente da Francesco Scoppetta. Uno Stato, nelle sue diverse articolazioni, creativo quanto confusionale e diseducativo, che ha fatto e fa male all’intera Calabria e al territorio di Lamezia, con un’oscena creatività.

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