Perché amo Ragonà e non New York

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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francesco-bevilacqua-foto-blog-nuova copia.jpg“Amo New York! E non posso fare a meno di tornarci almeno una volta l’anno. Qui in Calabria viviamo isolati dal resto del mondo. A New York invece …”. Così, qualche sera fa, il relatore, durante un dibattito pubblico sul turismo. Sarò fuori moda, sarò anti-umano, sarò asociale, sarò primitivo … ma io a New York impazzirei. A New York non sono mai andato (nonostante il gradito invito ricevuto dalla comunità calabrese della Grande Mela), né mai andrò! Mentre non posso fare a meno di tornare, almeno una volta l’anno, a Ragonà, la frazione di Nardodipace, a picco sulle gole del Fiume Allaro, nel più remoto angolo delle Serre di Calabria. Dove vivono, al massimo, una ventina di persone. Ma cosa accomuna – nella narrazione di oggi – New York e Ragonà? Che entrambi sono mondi, anzi centri del mondo, come direbbe Mircea Eliade. E, nonostante l’evidente sproporzione, nonostante il divario economico e sociale, lo sono in ugual misura. Meteo incerto. Guido il C.A.I. di Catanzaro in un cammino non facile: problemi di orientamento, qualche pericolo oggettivo. La dirigenza della sezione ha deciso di non annullare l’uscita. Del resto l’assoluta sicurezza non esiste neanche in questo tipo di attività. E vi sarebbe ben poco di avventuroso in qualcosa di perfettamente confezionato. Due volte l’anno, come socio fondatore della sezione e volontario, organizzo escursioni per i soci. Cerco di portarli in luoghi sempre nuovi. 

Ma questo implica un certo rischio, e non solo oggettivo. Molte persone, ormai, si avvicinano all’escursionismo, senza esserne davvero consapevoli. Attratti da quel che si vede in TV, in Internet e sui social, decidono di trascorrere in modo diverso le domeniche, senza, in realtà, accettare il “rischio” di essere cambiate dall’alterità cui vanno incontro viaggiando. Il viaggio, infatti, vorrebbe che ci aprissimo al cambiamento interiore, come osserva Marc Augé. Mentre, la maggior parte delle volte siamo noi a pretendere che i luoghi, la gente che incontriamo durante i nostri viaggi cambino, rassomiglino a noi, al nostro modo di vedere il mondo, eternamente omologato e urbanocentrico. “Ciò che per prima cosa mostrate, o viaggi, è la nostra sozzura gettata sul volto dell’umanità”, scrisse Claude Lévi-Strauss. Così una del gruppo, giunta a Ragonà, fra quelle case semidirute, quelle finestre mute, quei tetti sfondati, quei pochi sopravvissuti di un mondo perduto, può proclamare senza paura: “Dov’è, qui, il bar? Perché non c’è un bar?” Ma guarda, cara, che questo grumo di case non è un centro commerciale, non è una via dello shopping, non è un set cinematografico. E non l’ha realizzato la pro loco delle Serre per il trastullo dei turisti. Io stesso ho pudore a venir qui a disturbare il silenzio di questa gente, l’isolamento, la malinconia, le speranze sepolte. E tu ti meravigli che qui non ci sia un bar? Donne, uomini, bambini, vecchi, furono scacciati dalle loro case, allontanati dai loro campi, espropriati delle loro vite con la scusa dell’alluvione. Ma dietro c’era il potere politico ed economico, che avrebbe mal sopportato sacche di autonomia e diversità come quella di Ragonà. Tutto è stato risucchiato qualche chilometro più a monte, nella new town (si fa per dire) o molto più lontano, nei paesi esteri dove intere genie di ragonesi emigrò forzatamente.

Fermi a rifocillarci nella piazzetta del borgo. Da dietro le finestre gli irriducibili di Ragonà osservano gli alieni sbarcati dall’astronave. In lunga fila variopinta scendiamo fra le rampe di pietra per ritornare ai nostri pianeti distanti anni luce. Una pioggerella sottile, spazzata dal vento, ci sferza. Grida di bimbi che salutano da un balconcino. Una donna torna a casa dopo aver lavorato negli orti terrazzati che cesellano le ripidi pendici della montagna. C’è nell’aria l’eco delle voci di “Sole nero a Malifà”, il romanzo che Sharo Gambino ambientò in questo paese. Torniamo alle nostre comode case, alle nostre vite iper-protette, alle nostre prigioni dorate. Qui, invece, lascio il cuore, la commozione, la speranza. Ecco perché amo Ragonà e non New York.  

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