Letterati calabresi ed unificazione nazionale

Scritto da  Pubblicato in Francesco Vescio

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Nel presente scritto si cercherà di delineare un quadro sintetico sui differenziati contributi di alcuni letterati calabresi in relazione alle diverse tematiche culturali, sociali ed economiche poste in stretta relazione all’unificazione nazionale. La prima parte riguarderà la fase di passaggio dal Regno delle Due Sicilie all’Unità d’Italia, successivamente si darà spazio agli specifici apporti di diversi autori alla rappresentazione della vita e della cultura regionale. Nel brano seguente si dà conto dei mutamenti più significativi nel campo della cultura in relazione al cambiamento dinastico, istituzionale e politico: “ Puntualmente, il nodo dell’ambivalenza della nozione di calabresità venne al pettine dopo il 1860. Bruciata, sull’altare dell’unificazione, la tensione ideale sostanziata di titanismo libertario, di byronismo [ Il termine deriva dalla poetica e dai particolari modi di vivere fortemente individualisti, che spesso si allontanavano dalla morale comune del suo tempo, del poeta e scrittore inglese George Gordon Byron, Londra 1788 – Missolunghi – Grecia 1824; questi ebbe un notevole seguito tra alcuni intellettuali  anche in Italia e in Calabria, in modo particolare, N.d.R.]  e di romanticismo, la calabresità era ormai matura per rifluire nel versante opposto, essenzialmente negativo […] Finora, i ceti intellettuali della regione s’erano sentiti chiamare alla funzione di suscitatori di uno spirito patriottico, da edificare in consonanza con le tendenze liberali d’Italia, e il mito della calabresità era stato segno e simbolo di libertà lottatrice. Ma ora, a unificazione raggiunta, la funzione degl’intellettuali di Calabria diventava un’altra, e cioè l’omologazione civile e culturale delle masse calabresi al disegno di consolidamento dell’unificazione ottenuta. Da creatori e organizzatori del dissenso, contro il regime borbonico, gli intellettuali erano adesso chiamati a svolgere una funzione opposta, di indurre al consenso a favore del governo liberale […] Questo delicato passaggio veniva a coincidere con una realtà politica e sociale difficilissima, e cioè col periodo di iniziale disordine e poi di brigantaggio politico, banditismo comune e manutengolismo [ Il termine indica le varie modalità di sostegno attivo o passivo verso i briganti, N.d.R.], di cui anche la Calabria fu vittima nei primi anni Sessanta” (Augusto Placanica, Calabria in Idea, in ‘Storia d’Italia – Le Regioni – Dall’Unità a  Oggi- La Calabria’, Einaudi, Torino, 1985, pp. 612-613). La situazione calabrese nel periodo storico preso in esame viene chiaramente delineata nel passo seguente in modo conciso ma significativo: “Ma anche dopo l’unità la regione, immessa nel Regno, è oppressa dai gravi problemi economici e sociali derivanti da squilibri di ricchezza, da miseria quasi generale, analfabetismo, mancanza di fondamentali strutture sociali […] Deficiente era la classe dirigente meridionale, debole la società civile per l’avvilimento a cui era stato ridotto il popolo, di corte vedute i moderati, di scarso coraggio i democratici sicché i provvedimenti del nuovo governo, per la mancata soluzione dei contrasti, per il loro carattere autoritario, non si conciliavano con le esigenze popolari…” (Antonio Piromalli, La Letteratura Calabrese, Guida Editori, Napoli, 1977, p. 136).

Nel testo successivo c’è una chiara sintesi riguardo allo stretto rapporto tra la Calabria intesa come un insieme di territorio e animo degli abitanti e la letteratura: “ Il Padula lirico [ Il riferimento è a Vincenzo Padula, Acri (CS) 1819 – 1893 ed ad alcuni suoi scritti come: Il cardellino geloso, I quindici anni, Preghiera di fanciulla, Poesie inedite, etc., N.d.R.] è certamente quello minore. Ma c’è un altro Padula il quale più profondamente tratta una materia calabrese che sente con maggiore storicità, quella romanticamente ispirata alla natura <<altamente poetica>> della sua regione, << la foresta, - la Sila- le spelonche, i monti e le valli furiosi temporali avvicendati con cielo sereno e sorridente>> (De Sanctis). A quella natura congeniale al Byron si ispirarono il Campagna con l’Abate Gioacchino, Biagio Miraglia con il Brigante (novella in quattro canti), Pietro Giannone con la Lauretta (novella in quartine), Domenico Mauro con l’Enrico (novella): Il Byron aveva sdegnato gli eroi borghesi, i suoi eroi erano avventurieri, corsari, uomini fuori della società organizzata e spesso anche fuori della legge. In Calabria questi personaggi esistevano nella realtà: << La Calabria – scriveva De Sanctis – che per me è terra di grandi speranze, dove la natura è ancora primitiva e l’uomo ancor forte, appena in principio di trasformazione sotto la mano dell’uomo civile come le Romagne; serbava fresche le tradizioni di un popolo forte (…). C’è un fondo vivo e reale in quelle poesie, tutte le passioni nell’impeto naturale, come tra gli uomini quasi ancor selvaggi, avvicendati vendetta e perdono, generosità e assassinio; sono di fronte il brigante e l’uomo coraggioso che lo attacca, l’amore e la gelosia giungono all’estrema punta>>. Nell’Enrico questo mondo calabrese è drammatizzato, l’uomo si oppone alla società perché  non trova in essa giustizia (il De Sanctis, parlando del romanticismo calabrese, con un inciso autobiografico così dice della Calabria: << In Calabria si sente qualche cosa di un terreno ancora feudale. Vi sono stato io fuggendo un mandato d’arresto, e giungendo dissi tra me: il feudalesimo qui è ancora in vigore. Il contadino guarda con sommissione il barone e lo rispetta. Il capo è rispettato con cieca sommissione da’ suoi seguaci>>), le passioni giungono all’estremo e talvolta nella rappresentazione artistica si crea una sorta di nuova mitologia byroniana, tanto il poeta inglese è presente nei luoghi e nello spirito. L’ Abate Gioacchino di Giuseppe Campagna aveva iniziato (1819, ma il poemetto fu ampliato dal Campagna che vi lavorò fino al 1861) la serie di poemetti e di novelle (più aderenti alla realtà che non i componimenti dei romantici napoletani) che corrispondevano alla letteratura la quale si veniva sviluppando in Lombardia. Ed è forse la prima volta che la letteratura calabrese non è ritardata echeggiatrice di quella settentrionale. Il poemetto di Campagna tratta con colori truci di una vendetta calabrese. (Antonio Piromalli, op.cit., pp. 147- 149). Al fine di cogliere degli aspetti peculiari delle opere di alcuni letterati calabresi di quel periodo storico si riporta il testo successivo: “Nicola Misasi (Cosenza 1853- Roma 1923) iniziò il suo viaggio entro lo sfasciume umano con una polemica introduzione ai Racconti calabresi del 1881, dettando: <<Fa d’uopo (…) che questo popolo si faccia conoscere perché dileguino le sinistre prevenzioni; fa d’uopo si dimostri che quasi sempre il movente del delitto e della rapina non è un volgare istinto del male, ma qualcosa che bisogna rintracciare nella natura fiera e ardita di questo popolo. Ma per conoscere un paese nella sua indole e nelle sue tendenze, fa d’uopo studiar non le classi colte ed educate, ma quelle in cui la natura si è mantenuta affatto primitiva e affatto vergine; e perciò i protagonisti dei miei racconti saran poveri e contadini, e spesso servi di contadini, che sono come il basso fondo della società calabrese […]>>. (Racconti calabresi, Napoli 1881, pp. 36-37). E l’intenzione non rimane nella penna per questa ricerca di verità umana piuttosto che di verità poetica” (Pasquino Crupi, Sommario di Storia della Letteratura Calabrese per insegnanti di lingua italiana all’estero – Profili I, International AM Edizioni, Reggio Calabria, 2002, pp.116- 117). Si riportano di seguito alcuni versi del poeta Antonio Martino scritti in dialetto nei quali si può cogliere il senso di profonda delusione che in alcuni autori si manifestò con estrema chiarezza: “Il Risorgimento ebbe risonanza in alcuni poeti dialettali che aderirono, come poterono, con la lotta e con la voce dei loro versi, allo sforzo comune per la liberazione e l’unità d’Italia. È il caso dell’abate Antonio Martino [Galatro (Reggio Calabria) 1818 – 1884]. Persecuzioni si accumulano sulla testa dell’abate Martino, che, tra arresti, fughe e nuovamente arresto, rimase in prigione tra il 1850 e il 1856 per il suo imperterrito antiborbonismo. L’abate Martino porta nella poesia dialettale risorgimentale la coscienza che l’ingiustizia continua. Il Risorgimento era fallito nel Mezzogiorno e in Calabria, e il simbolo di questo fallimento è quel Vittorio Emanuele II, che indifferente, fuma, dorme e va a caccia:  Patri Vittoriu re d’Italia tutta// apriti s’occhi, s’aricchi annettati:// lu regnu vostru è tuttu supa sutta// e vui, patri e patruni, l’ignurati.//Li sudditi su tutti ammiseriti// vui jiti a caccia, fumati e dormiti.//Ministri, Senaturi e Deputati//fannu camurra e sugnu ntisi uniti (uniti)//; Prefetti, Cummissari e Magistrati,// sucandu a nui lu sangu su arricchiti.// E vui patri Vittoriu non guardati,// vui jiti a caccia, dormiti e fumati. (Paternoster) dei liberali calabresi. (Di la furca …a lu palu…- a cura di P. Ocello- Nettuno,1984)” ( Pasquino Crupi, op. cit., pp. 131-132). Da quanto sopra esposto si può intuire quanto sia stato grande l’impegno di tanti intellettuali calabresi dell’Ottocento per descrivere e far conoscere la realtà del territorio e degli abitanti della propria regione.      

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