La Calabria nel periodo del governo della destra storica

Scritto da  Pubblicato in Francesco Vescio

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Nel presente scritto l’esposizione si riparte in tre parti: a) la formazione del nuovo Stato unitario; b) la situazione delle regioni meridionali; c) le problematiche peculiari della Calabria. Nel brano che segue vengono delineati gli aspetti più rilevanti del Regno d’Italia nei primi anni della sua proclamazione: “Nel giro di due anni, dal marzo del 1859 al giugno 1861, è sorto in Europa uno Stato nuovo. Si estende su 259.320 chilometri quadrati ed è popolato da 21 milioni e 777.000 cittadini, con una media di 85 abitanti per chilometro quadrato. Vive prevalentemente di ciò che produce la terra: gli agricoltori sono 8 milioni, i lavoratori dell’industria e dell’artigianato 3. Non è ricco ma crede di esserlo perché è convinto che la povertà delle sue regioni più destituite [prive, mancanti di risorse adeguate ai bisogni degli abitanti, N.d.R.] sia dovuta esclusivamente alla neghittosa insipienza dei tiranni che le avevano governate. La libertà e l’unità renderanno al paese le ricchezze perdute, i beni per tanti secoli nascosti. Questa convinzione non è la sola falsa certezza con cui il paese inizia la sua storia unitaria. Anziché interrogarsi sulla rapidità della strada fatta nel giro di due anni, la classe dirigente italiana vede in essa il segno di un destino manifesto. Anziché analizzare freddamente i fattori che hanno favorito l’unificazione della penisola – la debolezza degli Stati italiani, l’aiuto attivo della Francia in una prima fase, la neutralità benevole dell’Inghilterra in una seconda- essa preferisce credere alle proprie virtù e al proprio talento. L’Europa la incoraggia. La vicenda italiana, ancor più di quella greca di quarant’anni prima, appassiona l’opinione pubblica europea, suscita entusiasmi, sollecita divagazioni storiche sulla nascita d’una nazione che è al tempo stesso la più antica e la più moderna del mondo occidentale [...] Le vicende meridionali [L’autore fa riferimento all’Impresa dei Mille, alla fine del Regno delle Due Sicilie ed, in particolare, al fenomeno del brigantaggio nel periodo postunitario, N.d.R.] ebbero un’influenza decisiva sulla forma dello Stato. La disparità di condizioni economiche e della cultura politica suggeriva l’adozione di un sistema fondato sull’autonomia delle regioni e delle città. Era questo, all’inizio del 1861, il programma del governo Cavour. Marco Minghetti, ministro dell’Interno, presentò alle Camere un progetto che prevedeva un largo decentramento burocratico, l’elezione dei sindaci e il trasferimento a organi locali di alcune delle responsabilità che il sistema piemontese riservava al potere centrale. Era una riforma liberale, dettata dalle predilezioni della classe dirigente, dalla sua <<anglomania>> e dalla constatazione che le Italie erano troppo numerose perché una sola amministrazione, nella capitale, potesse minuziosamente regolare la vita della periferia. Ma il progetto di Minghetti non fu neppure votato. Pochi mesi dopo un nuovo presidente del Consiglio, Bettino Ricasoli, accantonò la grande riforma <<autonomista>> ed estese a tutto il regno l’ordinamento sardo-piemontese.

Il provvedimento soppresse i regimi transitori che Torino aveva instaurato nelle province annesse e mise fine alla precarietà della transazione, ma rovesciò la filosofia politica a cui si era ispirata sino a pochi mesi prima la classe dirigente italiana. L’Italia, da allora, fu <<prefettizia>>, e il ministro dell’Interno fu da quel momento, con il presidente del Consiglio, il più autorevole esponente del governo. Il protagonista della svolta non fu, come sarebbe lecito supporre, piemontese. Un emiliano, Minghetti, aveva progettato la nascita di uno Stato decentrato e <<localista>>, ma un toscano, Ricasoli, decise bruscamente di sacrificare le aspirazioni delle nuove province e della propria regione” (Sergio Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento ai Nostri Giorni, il Giornale – Biblioteca Storica, Longanesi, Milano, 1998, pp. 24-57). Nel passo successivo vengono prese in considerazione le differenze fondamentali tra il Regno sardo – piemontese e quello Delle Due Sicilie dal punto di vista politico e di quello economico: “ Al momento dell’Unità d’Italia la dinastia borbonica e quella sabauda condividevano l’inganno dei nomi, adottati per i rispettivi stati: Il Regno delle Due Sicilie per capitale aveva Napoli, nella Sicilia un provincia importante ma ostile; il Regno di Sardegna aveva per capitale Torino, nella Sardegna una periferia quasi coloniale. Al di là di questo, le differenze erano di ordine istituzionale erano profonde, radicali. […] Con l’adozione dello Statuto Albertino, nel marzo del 1848, il Regno di Sardegna diventa una monarchia costituzionale. Sotto la guida del conte di Cavour, ministro dal 1850 e poi capo del governo quasi ininterrottamente dal 1852 al 1861, negli anni seguenti si dispiega una profonda opera riformatrice, che in ambito economico investe il commercio, la finanza, le infrastrutture sociali (istruzione) ed economiche (ferrovie), favorisce la modernizzazione dell’agricoltura e lo sviluppo dell’industria; ma contempla anche la riforma dei codici di procedura penale e civile, punta con forza alla separazione fra stato e Chiesa. Il processo non è sempre lineare, ci furono battute d’arresto e contrasti, rimasero influenza e prerogative della Corona che recenti studi critici sottolineano. Ma resta il fatto che la direzione di marcia è chiara, ed è una direzione modernizzatrice, che chiama i ceti imprenditoriali (di cui lo stesso Cavour è espressione) alla diretta gestione degli affari dello stato. Nel Regno delle Due Sicilie l’esperimento costituzionale avviato nel 1848 tramonta nel giro di un anno. La repressione che segue è feroce: migliaia di liberali vengono incarcerati o costretti all’esilio; buona parte della Sicilia deve essere riconquistata con la forza. In ambito economico, la monarchia assoluta dei Borboni aveva promosso una qualche iniziativa industriale, ma solo al riparo di forti protezioni doganali; era stata affidata quasi interamente a capitali e imprenditori stranieri, oppure all’intervento diretto dello stato come nel caso del Reale Opificio Borbonico di Pietrarsa [Frazione del comune di Portici, N.d.R.], officine metalmeccaniche che all’Unità raggiungevano un migliaio di addetti fra civili e militari. Tutto il resto era rimasto pressoché immobile. L’esigua borghesia endogena continuava a distinguersi per  la sua mentalità assenteista e speculativa […]

Negli ultimi anni al potere, i Borboni si illusero di poter perpetuare l’ancien régime. Ma era appunto un’illusione, che servì solo a peggiorare la situazione. Alla fine, la Costituzione concessa nel 1848 verrà riportata in vigore nel giugno 1860,  nel pieno della spedizione dei Mille e quando era ormai troppo tardi per le sorti della monarchia” (Emanuele Felice, Perché Il Sud È Rimasto Indietro, il Mulino, Bologna, pp.18- 19). La situazione calabrese nel periodo storico preso in esame è delineata nei suoi aspetti più rilevanti nel testo successivo: “In concreto il trapasso fu quasi indolore; e la pressione del vecchio personale borbonico, tranne poche eccezioni ai livelli medio-bassi tutto aderente al nuovo regime, ne garantì la rapida chiusura istituzionale […] Tuttavia il dissenso e l’opposizione al nuovo regime, pur diffusi, non avevano spazi per reazioni di massa. Lo stesso clero era diviso, e un folto gruppo di sacerdoti appoggiava il nuovo regime. D’altra parte, le nuove autorità furono molto ferme nei confronti dell’opposizione clericale, allontanando e processando i vescovi più intransigenti. Ma, finita la congiuntura plebiscitaria, si aprirono nuovi e ampi spazi al dissenso e  all’opposizione. L’adesione, anche convinta, al nuovo regine lasciò via via il posto alla delusione specie in taluni settori della media e piccola borghesia; e riemersero, accanto ai problemi della cosiddetta assimilazione interna tra le varie parti del paese, tutti i nodi propri della società calabrese [...] Era in qualche modo inevitabile che il passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento creasse delusioni e scontento, anche tra i fautori di una unificazione pensata come risanatrice di tutti i mali e perciò delusi che la realtà non calzasse col modello ideale. Tuttavia nessuno dei protagonisti del momento liberale preunitario, tranne taluni settori del grande possesso fondiario per l’omogeneità degli interessi rappresentati e per la più sicura coscienza del loro ruolo, aveva ben avvertito il duro impatto tra il sistema dei rapporti preesistenti e il disegnato modello nazionale. Da questo lato la delusione fu cocente, anzi via via crescente lungo le rapide tappe che modellavano il nuovo corso politico e sociale e si affermava una direzione politica ora coordinata e subordinata a un potere centrale più forte e solidale […] Il salto rispetto ai limitati quadri politici precedenti era perciò notevole e anche la dissestata vita comunale era forzata ad assumere ritmi più articolati, sebbene dentro un modello dominato dalle personalità e dalle clientele” (Gaetano Cingari, Storia della Calabria Dall’Unità A Oggi, Laterza, Roma- Bari, 1982, pp. 16- 20 passim). Da quanto sopra esposto si può inferire che, nonostante l’importante innovazione nazionale della monarchia costituzionale, la situazione sociale, economica ed amministrativa in Calabria restò sostanzialmente immutata; la modernizzazione complessiva era proprio lenta e stentata.

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