Con la forza della memoria. E della commozione

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

© RIPRODUZIONE RISERVATA

francesco_bevilacqua-12272017-074408.jpgCi sono momenti dell’anno in cui si raggrumano tutte le ansie. Mi terrorizzano le feste, i pranzi, le cene, le fabbriche dell’allegria coatta. Mi spaventa il vitalismo di chi scambia la fine dell’anno per la fine del mondo. Temo l’arrivo dei regali. E ancor di più ho paura delle folle che sciamano nei negozi. Vi giungo, puntualmente afflitto dai doveri. E quest’anno da tanto altro ancora. Mi toccherà una overdose! Devo esorcizzarla. Con un antidoto preventivo di solitudini e silenzi; ma che siano immensi. Con una preghiera; ma non in una chiesa affollata. Con un’erranza; ma verso un orizzonte infinito. Con il freddo; ma che abbia anche il sole. Con la neve; ma che sia poca, e senza addobbi su pini e abeti. E poi devo mettere alla prova la mia caviglia, dopo i dolori dell’osteocondrite. E con essa la mia psiche. Sarà il primo cammino serio dacché il dolore mi ha nuovamente fermato. Sino al 23 dicembre non ho neppure avuto il tempo di riflettere. Il buio della sera, però, richiama alla memoria un luogo. E con esso, risorge la parte più remota di me stesso. E’ un luogo profondo, che mi manca da anni. Stamane, 24 di dicembre, nessuno calca il sentiero per Monte Perre. Neanche le capre.

E’ stato arduo giungere sin qui. La strada da Samo è franata fra gli sfasciumi d’Aspromonte. Ha resistito giusto un tanto per permettere alla nostra auto di passare. Ecco il nido d’aquila che pencola nel vuoto, sulla valle dell’Aposcipo. Il pastore vi ha legato il ceppo di un pino, con del fil di ferro stretto attorno ad una bacchetta metallica confitta al suolo. Così egli prenota (e blinda) la miglior poltrona in prima fila! Chissà quante volte, seduto su quel ceppo, ha atteso il tramonto. Contemplando la fuga infinita di valli e crinali. Le pendici ove sono celate le rovine di Africo. E, di fronte, quelle di Casalnuovo. E Monte Scapparrone. E Monte Jofri. E in mezzo le spire della fiumara. E dietro altri crinali oscuri. Sino ad uno spicchio rilucente di Mar Ionio, come un diamante azzurrino. E’ da lì che inizio ad assumere il mio antidoto. Da lì parte la prova con me stesso. Le foglie sulle querce non sono ancora cadute. Margherite ritardatarie fra i massi. Euforbie suggono linfa dalla terra. E i pini, che contendono alle querce le pendici erose. E i corvi, che sorvegliano i nostri movimenti. Il sentiero dei pastori è scavato nella roccia maculata di licheni: della specie Acarospora mi svelerà il giorno appresso Mimmo Puntillo. A tratti è una cengia sospesa fra le rupi e l’abisso. Qui condussi per la sua ultima volta, Franco, un amico del Nord che venne a morire al Sud. Ho vivido il ricordo del suo volto stupito che scruta la valle dall’orlo dell’abisso. La sorgente cola timidamente. L’acqua ristagna nella sua vasca di roccia. La radura segreta, protetta dai venti, mostra il cerchio di pietre di un vecchio rifugio, uguale a se stesso sin dalla preistoria. Mi commuovono i gradini intagliati nella roccia. A lungo fuori e dentro il bosco. Le enormi querce artigliate al suolo con radici che sono rami capovolti. E d’improvviso, la visione delle cuspidi dirupate di Monte Perre e Puntone Galera. Tutto qui dà l’idea del provvisorio, dell’instabile. Tutto frana, smotta, scivola inesorabilmente a valle. Attraverso i canaloni precipiti, verso quel greto ingombro di miliardi di pietre un tempo solidamente fuse alle montagne. Eppure tutto pare eterno. Perché l’aura del luogo non subisce mutamenti, dovessero crollare anche le montagne. Sul lato a nord c’è la neve. E c’è l’ombra. E c’è il gelo. E c’è il vento.

E vedo l’altra fiumara, la Butramo. La tremenda: colei che mi ricacciò per ben due volte; colei che mi impose notti all’addiaccio, quando in Aspromonte c’erano ancora i sequestri di persona. E incontro i “Petrazzi”, l’anello di pietre erette che circonda la radura ove fu un grande stazzo. Al valico sotto Puntone Galera tento di seguire la traccia mnemonica di una pista verso il belvedere sulle cascate del Ferraina. Sempre ritrovata, in passato, nonostante le difficoltà. Ma questa volta l’animale che è in me non fiuta la traccia. Ci aggiriamo a lungo fra gli intrichi di ginestre. Ed il cammino diviene erranza pura. Sino a rinunciare. Ritorno sui miei passi tenendomi più in alto. Incrocio un sentiero da cui manco da più tempo ancora. Ogni rinuncia è l’inizio di una nuova conquista: qualcuno me l’ha detto nei giorni scorsi. E infatti il sentiero sale, implacabile come il dolore alla caviglia, verso il cielo. Fra panorami sempre più vasti, rupi sempre più colossali, querce sempre più antiche, foreste sempre più oscure. La mente entra in una condizione onirica, mentre i piedi giungono sull’orlo di Croce di Dio Sia Lodato. La rinuncia mi ha portato sin qui, in un luogo che vidi in un’altra vita. Gli occhi non bastano per imprimere l’intero sogno sulla retina. E nella psiche. Da un lato la costa che sfila verso la Punta di Roccella. Da un altro l’apice dell’Aspromonte sperso in un dedalo di foreste.

Da un altro le valli e le pendici che pagano i loro tributi di pietre: come se un enorme rapace giurassico fosse piombato quassù a squassare con gli unghioni le montagne. Ecco il luogo dove rivolgermi a Dio, il grande mistero che sempre mi si mostra. Nei volti della Terra come in quelli delle creature. Prego. Insieme alle grandi querce oranti, rivolte al cielo. La caviglia pulsa: mi avverte che c’è, ci sarà … Il dolore è un messaggio preciso: ogni cammino è un racconto, ogni racconto è un cammino; attento, perché potrebbero non esserci altri cammini, altri racconti! Ma so che devo essere grato anche per questo dolore. Come le pietre di questi monti, la vita frana. E non c’è da piangerci su. Ma bisogna trarne quanta più forza, quanta più memoria, quanta più commozione possibili.   

© RIPRODUZIONE RISERVATA