Dispersi, fra la terra e il cielo

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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 Una di notte. Classico dei miei dopo-cammini. Ho dormito appena quattro ore. Ma ora sono sveglio, con gli occhi sbarrati dall’impellenza di scrivere. Ho ancora nelle orecchie il sax tenore di John Coltrane in “Kind of blue” di Miles Davis, che riempie l’abitacolo. Ogni cammino ha un suono e una musica. Il suono di oggi è il fraseggio maschio, pieno, del sax di Coltrane. La musica, invece, è il fragore di Marmarico: partitura per acqua che erompe, rupi brunite, pozze di smeraldo, e un coro di alberi pencolanti nel vuoto.

Torno a Marmarico dopo qualche anno d’assenza. Qui, negli anni ottanta, conducemmo un’epica battaglia per non far ricostruire una vecchia centralina idroelettrica che avrebbe stuprato uno dei luoghi più straordinari dell’Appennino. Ci vado solo d’inverno. Possibilmente dopo piogge abbondanti e col cattivo tempo. Marmarico è più bella quando è in piena ed emerge dalle fredde nebbie, come una ninfa fra le brume delle montagne. E quando non incontri frotte di turisti goderecci che, da quando divulgammo le cascate, si fanno scarrozzare su e giù, in fuoristrada, lungo gli appena cinque km che le collega a Bivongi. Partiamo da Ferdinandea, la bella casa padronale ove fu ospite del generale garibaldino Fazzari, Matilde Serao e che scrisse ammirate descrizioni del luogo sul Corriere della Sera nel settembre del 1886. Attorno i resti delle antiche industrie siderurgiche borboniche alimentate dai metalli provenienti dalle miniere delle basse gole fluviali delle Serre e dal combustibile sottratto ai vasti boschi circostanti. Scendiamo lungo la condotta forzata che parte dalla piccola diga sul Torrente Folea, in una fiabesca foresta di abeti banchi, faggi, cerri. Giungiamo alla confluenza con l’altra condotta che proviene dal contiguo Torrente Ruggiero. Le casette lillipuziane dei pastori e contadini, che, sino a cinquant’anni fa, vivevano su questa altura boscosa, sono completamente invase dai rovi. Una stradaccia ha sostituito, per un lungo tratto, l’antico sentiero che zigzagava attorno al tubo di ferro e cemento che faceva precipitare, per centinaia di metri, l’acqua sino alla turbina della centralina idroelettrica sul fondo della valle. Tutt’attorno lo sfacelo di un diboscamento. Ovunque frane, smottamenti tagli a raso, sbancamenti. In quella che era una meravigliosa lecceta, tornata a nuova vita dopo secoli di devastazioni. E pensare che siamo nel Parco Regionale delle Serre! Alla terza galleria sbuchiamo su uno spettacolare belvedere che domina dall’alto le cascate.

Poi giù, lungo il sentiero, provvidenzialmente risparmiato sino al fiume. Risaliamo sino alla base dell’imponente serie di salti d’acqua avvolti fra un intrico di vegetazione e di rocce. Purtroppo il cielo è terso e il contrasto di luce e ombra non è la condizione ideale che cercavo. Ma il fiume è carico. Nella mia immaginazione le cascate hanno sempre a che fare con qualcosa di corporeo: il liquido amniotico di un ventre materno, che rompe le acque; o un liquido seminale, che feconda la terra. Perciò ho bisogno di raccoglimento quando vengo in luoghi come questo. “Per l’uomo religioso – scrive Mircea Eliade – la Natura non è mai esclusivamente naturale […]: uscito dalle mani degli dèi, il Mondo rimane pregno di sacralità”. Ci distacchiamo a malincuore dalle cascate e scendiamo dolcemente lungo la stradina che porta a Bivongi. Fra macchie intricate, antichi terrazzamenti, ancora tagli scriteriati, eriche, lecci, ciliegi prematuramente fioriti, paesaggi senza tempo. Poi il pellegrinaggio finale a San Giovanni Theresti, la mirabile chiesa bizantina, alta su un poggio favoloso, appeso come un nido d’aquila, fra la valle della Stilaro e quella dell’Assi. Ci accoglie un giovane monaco greco-ortodosso, che, con i suoi compagni ha ricolonizzato il famoso luogo di culto. E’ silenzioso, lo sguardo ascetico, l’espressione mite e malinconica. Le icone delle madonne orientali, i dipinti dei santi greci, le candele lunghe, la solitudine e il silenzio, il cielo che trascolora, completano l’aura di sospensione temporale, di incanto interiore che ci ha cullato per ore, dispersi fra la terra e il cielo. 

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