Viaggio nel cuore del mondo

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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bevilacqua_fotoblog.jpgBenedici il mio cammino, oh amata. Beneditelo, amici. Perché voi sapete quanto conti per me. E’ col cammino che riscatterò, oggi, un’intera settimana. Una lunga, interminabile settimana di lavoro, che ha interamente sequestrato il mio tempo. Benedite quest’orzo fumante. E questo pane nero intriso di miele. E la penombra nella stanza. E il buio fondo là fuori, fra le querce. Benedite le poche mandorle e la mela ben tagliata ... Perché fra un po’ sarò in viaggio! E riposerò, mentre il cielo s’illumina lentamente. Cullato dal calore dei compagni. E’ il giorno della montagna aspra e rovinosa! La montagna che frantuma. La montagna vulnerabile e malinconica. La montagna che più mi somiglia, fra tutte quelle che amo! Non posso stare lontano da lei troppo a lungo. E quando il tempo scorre senza che la veda, sento un peso sul cuore. Il peso di un insopportabile esilio. Da qualche tempo medito su come raggiungere a piedi, da valle, uno dei suoi luoghi più remoti e riposti. Un luogo dove sono stato altre volte, certo, ma sempre dopo un lungo viaggio in auto sopra le montagne. Ho studiato le mie carte, rivisto i miei appunti, riaperto la mia vecchia guida all’Aspromonte. Ho scavato nella memoria, evocato i ricordi. Di tutto l’Aspromonte ho particolarmente caro Africo vecchio, le sue rovine, le sue montagne! Per un giorno, oggi, sarò anch’io il pastore che torna al villaggio, dopo la discesa al piano.

Da quel mare che gli africoti non avevano mai visto, prima della loro deportazione sulla costa ionica. Solchiamo l’entroterra della Locride. Ecco la valle dei paesi fantasma: Bruzzano vecchio, in una piega fra le colline, con il suo irreale “arco di trionfo”; Brancaleone vecchio, alto su un colle, con i pertugi delle cisterne per l’acqua piovana. Paesi diroccati, vuoti, silenziosi. Povere rovine che innalzano i loro denti di pietra fra i campi spazzati dal vento. Sullo sfondo delle severe cime d’Aspromonte. A Motticella solo qualche anziano contadino, che si accinge a raggiungere i campi, per la cura domenicale agli orti e agli animali. Ci addentriamo nell’apparente nulla delle valli del Torno e del San Pietro. Campi, stazzi, ulivi secolari, ancora rovine. Sotto la grande onda pietrificata del Monte Scapparrone. Case Scete è un nome dal suono omerico che significa “cresta di monte”. Pochi ruderi sul confine tra un paese di mare, Bruzzano Zefirio, e uno di montagna, Africo vecchio. Penetriamo nel labirinto. Ad Agrami, il rudere moderno, costruito, come tanti inutili caselli forestali, con i fondi della forestazione. Tanto per rendere ancor più dipendente e assistita, da uno Stato che quassù non è mai venuto se non per estorcere tributi, quella povera gente. Inizia il sentiero degli spiriti! Spiriti silenziosi, rudi, infaticabili, che per secoli hanno scolpito la nuda roccia, creato passaggi impossibili, sistemato scarpate, costruito muri di pietre. Spiriti liberi, vaganti in queste immense selve di querce. Rotte dai valloni precipiti, che tutto portano a valle durante le piogge. Quante volte la tempesta ha distrutto i sentieri! E quante volte gli africoti li hanno ricostruiti. Non c’è, qui, un cammino che non attraversi una voragine! Tutto qui ha un senso di finitezza ineluttabile. La nebbia scende ad avvolgere la foresta in un grigio sudario. Poche, rapide folate lasciano intravedere, laggiù, gli abissi dove serpeggiano fiumi di pietre. Portella della Ficara è l’antico valico fra Serro Carrà e Monte Scapparrone, il passaggio segreto che divide due mondi. Aggiriamo l’altura lungo il sentiero che pencola sui valloni degli Zimbi. Querce e castagni immensi. Il sentiero aggira Monte Linsito, traversa budelli simili a trincee di guerra, supera una porta di pietra, sfocia su un ricco pascolo. Uno squarcio nel cielo illumina l’erba gelida.

Senza avvedermene sono andato avanti, solo. Come per un richiamo inespresso. Mi sale dentro un groppo d’ansia. E’ la nostalgia di chi torna al suo campanile. Di chi ha bisogno – come scrisse Ernesto De Martino - di un segno familiare che lo guarisca dall’angoscia territoriale. Di chi vuol sapere che in sua assenza nulla è cambiato, che case, uomini, luoghi sono sempre al loro posto. Così come li trovò, nel 1928, Umberto Zanotti Bianco. Isolati i luoghi, diroccate le case, derilitti e affamati gli uomini. Vessati da un potere lontano, che seppe distruggere, con un generalizzato divieto di pascolo, la locale industria delle capre. Agli africoti non restò che il loro rancido pane di mischio, un’ispida farina di lenticchie, orzo e cicerchie, minuziosamente descritta da Manlio Rossi Doria: in quel pane egli trovò perfino paglia. 

“Non c’è porto levantino che possa raccogliere una simile varietà di miseria” scriveva Zanotti Bianco dopo aver elencato tutte le tragedie di Africo. E’ con questi pensieri che valico l’orlo superiore dei pascoli e giungo in vista della valle. Contrasto onirico di bagliori obliqui e ombre profonde. Al centro il poggio con le rovine di Casalnuovo ammassate come una mandria nello stazzo. A destra, sulla pendice di Puntone La Guardia, oltre il vallone, il gregge sparso delle case di Africo vecchio. Sopra tutto le torreggianti forme d’Aspromonte, che forano il cielo corrusco. Vedo il campanile. Si placa la mia ansia. Il mio cuore si pacifica. Il pastore è di nuovo al villaggio. Distrutto. Non dalla forza bruta della natura, ma dalla tetra cattiveria del potere dell’uomo. E’ vero, qui avvenne una catastrofe naturale. In poche notti fu un diluvio biblico. La montagna scese al fiume. Ma gli africoti non avevano un’arca dove mettersi in salvo. Per mesi, per anni, gli uomini, le donne, i bambini, i vecchi vagarono in cerca d’aiuto.

Alla fine qualcuno decise di deportarli tutti in un altrove senza senso, che non è, non sarà mai la loro patria. Perché la loro vera patria è rimasta lassù. Con le case, i muri, le piccole piazze, i vichi, le chiese, le fontane, gli altari. A riprova che il paese poteva, doveva essere ricostruito. Se non fosse che lo Stato, invece, mal sopportava che il popolo dei boschi – come lo chiama Gioacchino Criaco – continuasse a vivere, povero ma libero. E lo fece schiavo. E lo maledisse a vita. Il pastore osserva ora il villaggio che s’illumina e si oscura, a fiotti, sotto il cammino delle nubi nel cielo. Sente la commozione affluirgli al cuore. Gli pare anche di udire la nenia ancestrale di una zampogna. Poi solo il vento. E il silenzio. E’ tornato a casa. E’ giunto al termine del suo viaggio nel cuore del Mondo.        

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