Il referendum consultivo in Lombardia e nel Veneto

Scritto da  Pubblicato in Pino Gullà

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pino_gulla-12122017-100932.jpgLe elezioni regionali siciliane del 6 novembre scorso hanno messo nel dimenticatoio i risultati referendari sull’autonomia in Lombardia e nel Veneto. Come passati in seconda pagina. Eppure ripropongono la cosiddetta Questione Settentrionale, magari aggiornata rispetto al secessionismo bossiano della fine del secolo scorso quando le telecamere mostravano le ampolle alla sorgente del Po, le parate, il parlamento padano. Forse quel modo di essere, di pensare il Nord, di manifestare la propria identità territoriale sembra ormai passatista. Ma permangono altri aspetti importanti dell’autonomismo settentrionale pur nell’ambito della compatibilità costituzionale dove le richieste dei referendari fanno riferimento agli artt. costituzionali 116, 117, 118, 119 della Carta. Per questo si è votato. Nel Veneto è stato superata abbondantemente la maggioranza degli elettori; sono andati a votare il 57,2% degli aventi diritto; in Lombardia il 38,26%. Gli elettori di entrambe le regioni hanno detto sì “a ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” in modo quasi plebiscitario: in Lombardia ha votato sì il 96,2%; nel Veneto il 98,1. Un’affluenza pressoché trasversale. Suffragi non soltanto di provenienza leghista. Voglia di autonomia anche in altre regioni e a questo punto si potrebbe creare un effetto domino. Al riguardo la Regione Emilia Romagna ha già presentato richiesta di maggiori competenze senza referendum e ha trovato Palazzo Chigi pronto a discuterle. All’indomani dei risultati, euforico Zaia, governatore del Veneto, nel manifestare il desiderio di una proposta di legge di iniziativa regionale per una modifica dell’art. 116; in pratica vorrebbe inserire il Veneto nelle regioni a Statuto Speciale. “Basta aggiungere il Veneto alla Valle d’Aosta nell’articolo costituzionale”, aveva dichiarato alla chiusura dei seggi, con la richiesta “a Roma di tutte le 23 competenze e i nove decimi delle tasse”.

Ma sarebbe compito del Parlamento modificare la Carta e chiedere lo Statuto Speciale per la Regione Veneta. Da tale posizione si è subito smarcato il presidente lombardo Maroni chiedendo lo status di regione speciale che non prevede lo Statuto Speciale, ma permette la trattativa con il governo per ottenere più risorse tramite i meccanismi del residuo fiscale che segnano l’avanzo del pagamento delle imposte. Quasi sicuramente allo stesso modo si posizionerà anche Zaia, passati i primi momenti di entusiasmo. I due governatori chiederanno competenze e riduzione di quote delle entrate tributarie in virtù di migliori servizi e maggiore risparmio. D’altronde è l’aspetto più concreto, immediatamente perseguibile, al riparo da possibili turbolenze di tipo “catalano”. Si tratta di recuperare risorse finanziarie dalla differenza tra quello che le due regioni versano e quello che ricevono dallo Stato: per il Veneto 8 miliardi circa, per la Lombardia 24 su 56 (Il sole 24 ORE).  IL Tesoro dà loro ragione (anche all’Emilia Romagna). Sono le prime in Italia che hanno minore spesa pubblica. “Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna (…) spendono per i loro dipendenti tre volte e mezzo in meno di quanto paga da sola la Regione Sicilia: 450 milioni contro 1,6 miliardi” con migliori servizi (la Repubblica). Lo stesso vale per la Sardegna e la Calabria a proposito di maggiori costi per il personale.

Ma se prevale il criterio meritocratico (rapporto costi-qualità dei servizi), c’è il rischio che saltino i principi di solidarietà su cui è stata scritta la nostra Costituzione. Il problema riguarderebbe, insieme a Sicilia e Calabria, pure altre regioni italiane. Il sistema solidaristico italiano nato con Questione Meridionale ha visto pure aspetti positivi. Per non perdere la memoria e per rimuovere i vizi dell’autonomismo (non le eventuali virtù) giova ricordare i tanti meridionalisti del passato: Carlo Levi, Lombardo Radice, Manlio Rossi Doria, Pasquale Saraceno, Giuseppe Dossetti citati in precedenti articoli. In particolare Umberto Zanotti Bianco, piemontese d’adozione, dopo il terremoto del 1908, arrivò a Messina con altri settentrionali e dedicò la sua vita per il riscatto del Sud.  Dopo l’Intervento straordinario e la fine della Cassa per il Mezzogiorno, agli inizi egli anni ’90 i nuovi meridionalisti, tra i tanti Piero Bevilacqua, Carlo Trigilia, Gianfranco Viesti, propongono una ripartenza del Mezzogiorno secondo una visione diversa dall’industrialismo calato dall’alto, in particolare Carlo Borgomeo. Il suo libro, L’equivoco del Sud. Sviluppo e coesione sociale, segna una discontinuità, evitando i grandi trasferimenti finanziari provenienti da Roma in passato distribuiti, nella maggior parte dei casi, secondo una logica clientelare e di malaffare. Bisogna ricominciare dal basso con la buona politica e l’efficiente amministrazione conquistando il territorio a discapito della delinquenza organizzata; nel contempo puntare ai Fondi Europei con progetti credibili. Di questo si è occupato Trigilia quando è diventato ministro della coesione sociale durante il governo Letta.

Sulla stessa linea Claudio De Vincenti, l’attuale ministro per la coesione territoriale e il Mezzogiorno. Ministero ripristinato dopo che era stato soppresso nel ‘93 quando nasceva La Questione Settentrionale e terminava il suo percorso La Questione Meridionale classica con l’Intervento straordinario. La Questione Settentrionale, originata da un disagio che trovava sfogo politico nella Lega, nel prosieguo diventava malcontento diffuso verso la politica dello Stato centrale che non risolveva i problemi dello sviluppo; oppressiva sulla questione fiscale, frenava la crescita di realtà competitive con buone pratiche di governo locale. Negli anni Ottanta la Lega Lombarda ottenne consenso rivendicando autonomismo; mentre La Liga Veneta si distinse nel considerare il Veneto come “nazione” su cui si elaborarono programmi federalisti, anche se l’obiettivo primario era l’autonomia regionale. Successivamente La Liga Veneta verrà assorbita dalla ben più grande Lega Nord che ampliò il suo consenso anche in Piemonte e in Liguria, ponendo in primo piano il federalismo fiscale per uscire dalla crisi.  Un virgolettato degli anni ’90 fa capire il presente: “Con il federalismo fiscale (…) si tenta di limitare la questione al mero aspetto fiscale, sostenendo il diritto di ciascuna regione del godere del gettito dei tributi in essa riscossi” (Delta, n.65, novembre-dicembre 1994, p.4).  Oggi dopo il referendum in Lombardia e nel Veneto, ritorna forte il federalismo attraverso la richiesta di autonomia del Nord, di maggiori competenze e di avanzo fiscale che viene distributivo dal Centro alle regioni più povere. Quest’ultimo sarebbe la differenza tra entrate e spese. Se viene rivendicato salta la solidarietà nazionale per garantire i diritti sacrosanti a tutti i cittadini come da Carta costituzionale. Ma ciò viene contestato dai sostenitori del federalismo fiscale perché le risorse finanziarie al Sud sono il terreno di coltura di sprechi e clientelismi. Considerata l’Italia una “Repubblica una e indivisibile [che] riconosce e promuove le autonomie”, diventa auspicabile l’incontro tra Questione Meridionale e Questione Settentrionale ai fini di una narrazione condivisa, partendo dal neo meridionalismo e dal federalismo del Nord.

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