Attuale il pensiero manzoniano. Necessari gli anticorpi sociali e legali

Scritto da  Pubblicato in Pino Gullà

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pino_gulla_865eb_a280e_8b2cb_708ae_7bd60_dbe72_1b2ed_af80b.jpgAlcuni magistrati citano volentieri la letteratura quando devono parlare di potere politico e criminalità; forse perché le opere letterarie a cui fanno riferimento rivelano la loro attualità e contribuiscono a fare chiarezza sulle connessioni nel mondo dell’illegalità odierna. É il caso di Roberto Scarpinato, già procuratore generale al Tribunale Palermo, oggi senatore del Movimento 5 Stelle come indipendente, intervistato da Saverio Lodato, giornalista e scrittore. L’intervista è diventata libro: Il ritorno del principe edito da Chiarelettere il 2008. Ricordo che il titolo mi aveva incuriosito per il richiamo all’opera del Machiavelli; dopo la lettura, colpito da alcune pagine inquietanti, scrissi anche un pezzo, tra il racconto didattico e la recensione, pubblicato nel gennaio del 2009 nell’edizione cartacea de il Lametino. Non solo: ho ricordato l’importante intervista in articoli successivi e in altre occasioni. Allora Scarpinato era procuratore aggiunto presso il Tribunale di Palermo; in prima linea nella lotta alla mafia. Le domande e le risposte sono soprattutto riflessioni e ragionamenti su fatti politici, economici e sociali strettamente collegati tanto da assumere le caratteristiche di un saggio storiografico e di sociologia politica che permette di comprendere gravi avvenimenti del nostro Paese al di là della storia ufficiale perché parla di vicende “fuori scena”. Così Scarpinato nella presentazione della seconda edizione del 2017: “Questo libro, nonostante sia stato scritto nel 2008, è più che mai attuale”. La citazione posta in esergo anticipa sinteticamente i contenuti del libro: “Vi son due storie: la storia ufficiale, menzognera, che ci viene insegnata, e la storia segreta, dove si trovano le vere cause degli avvenimenti, una storia vergognosa” (Honoré de Balzac)”.

Rispetto agli articoli precedenti, cercherò di approfondire il riferimento letterario del procuratore Scarpinato riguardante I Promessi Sposi che rivelano la loro attualità a 150 anni dalla scomparsa di Alessandro Manzoni.  Per un rapido ripasso un compendio stringato dei capitoli iniziali del romanzo. Nel primo i bravi, la manovalanza criminale di don Rodrigo, intimoriscono don Abbondio con il linguaggio tipico dell’intimidazione mafiosa per costringerlo a non celebrare il matrimonio di Renzo e Lucia: “Non s’ha da fare né domani né mai […] Uomo avvertito … Lei c’intende. […] Signor curato, l’illustrissimo Signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente”. Nel secondo capitolo il prete trova una serie di pretesti per rimandare la cerimonia nuziale. Nel terzo Renzo, insospettitosi, si rivolge all’avvocato Azzeccagarbugli; ma quando l’uomo di legge scopre che il promesso sposo è vittima di don Rodrigo lo caccia fuori di casa in malo modo. Dopo il fallimento del matrimonio a sorpresa, Lucia chiede aiuto a frate Cristoforo che, disponibile, si reca al castello di don Rodrigo. Nel capitolo quinto c’è la cricca, il signorotto e i suoi amici, a tavola imbandita, dove frate Cristoforo, accompagnato dal vecchio servitore, si presenta: “Don Rodrigo, ch’era lì in capo di tavola, […] alla sua destra sedeva quel conte Attilio suo cugino. […] A sinistra […] il signor podestà. […] In faccia al podestà […] sedeva il nostro dottor Azzeccagarbugli”.

Ed ecco la chiave di lettura di Scarpinato nelle pagine 97 e 98 de Il ritorno del Principe: “Il romanzo I promessi sposi di Manzoni descrive l’ordinarietà del metodo mafioso nell’Italia del Seicento. Potremmo dire che don Abbondio si piega ai voleri di don Rodrigo non solo perché ha timore dei suoi bravi-quelli che oggi chiameremmo i mafiosi dell’ala militare, gli specialisti della violenza- ma anche perché si trova in una condizione di assoggettamento di omertà che deriva dalla consapevolezza del vincolo associativo che lega don Rodrigo ad altri potenti, anche nel mondo ecclesiastico. Nella stessa condizione si trova l’avvocato Azzeccagarbugli cui Renzo si era rivolto nella speranza di trovare un rimedio legale contro la prepotenza, il quale rifiuta l’incarico quando apprende che avrebbe dovuto agire secondo legge contro un potente come don Rodrigo al di sopra della legge. Quando i bravi falliscono il tentativo di rapire Lucia, don Rodrigo, insieme al cugino, il conte Attilio, stabilisce di intimorire il console del villaggio [ho fatto stamattina avvertire il console che guardi bene di non far deposizione dell’avvenuto], di convincere il podestà a non intervenire, e di fare pressione sul conte zio affinché faccia trasferire fra’ Cristoforo [Il signor conte zio del Consiglio Segreto è lui che mi deve fare il servizio [] un politicone di quel calibro! Domani l’altro sarò a Milano, e, in una maniera o in un’altra, il frate sarà servito […] butterò poi là qualche parolina sul conte zio del Consiglio segreto: e sapete che effetto fanno quelle paroline all’orecchio del signor podestà]”. Il Consiglio segreto era l’assemblea consultiva, di tredici membri che fiancheggiava il governatore di Milano nell’amministrazione ordinaria. Continua Scarpinato nella sua particolare lettura del capolavoro manzoniano: “Alla fine riesce nell’intento di rapire Lucia nel convento di Monza, dove si era rifugiata, grazie alla complicità di altri due esponenti del mondo dei potenti: suor Gertrude e l’Innominato. In un’Italia, quella del Seicento, dove non esistevano anticorpi sociali e legali contro il sistema di potere mafioso, Manzoni è costretto a fare intervenire la Provvidenza perché la storia abbia un lieto fine: L’Innominato libera Lucia perché si converte colto da una improvvisa crisi esistenziale. Don Rodrigo viene fermato dalla morte che lo ghermisce con il contagio della peste. In conclusone la storia esemplifica come la sommatoria di potere militare (i bravi) e di potere sociale (il vincolo associativo derivante dalla solidarietà interna al mondo dei potenti) si traduca in un abuso di potere personale che sostanzia il metodo mafioso. Un metodo con il quale milioni d’Italiani hanno convissuto per secoli da vittime e da carnefici”.

Tornando al romanzo manzoniano, il capitolo secondo ci mostra un Renzo addirittura adirato che medita propositi di vendetta e pensa di appostarsi, alla stessa stregua di un esecutore della manovalanza criminale: “Si figurava allora di prendere il suo schioppo [non c’era ancora la lupara], d’appiattirsi dietro una siepe, aspettando se mai, se mai colui venisse a passar da solo; e, internandosi, con feroce compiacenza […] si figurava […] d’alzar chetamente la testa; riconosceva lo scellerato, spianava lo schioppo, prendeva la mira, sparava, lo vedeva cadere, [… ] gli lanciava una maledizione e correva lungo la strada del confine e mettersi in salvo”. Renzo corre il rischio di diventare un potenziale assassino: “Con una smania addosso di fare qualcosa di strano e di terribile”. Provvidenzialmente interviene Lucia che lo fa ragionare: “Ah! No, Renzo per amor del cielo! Il Signore c’è anche per i poveri; e come volete che ci aiuti se facciam del male” (Cap. III). Intervengono la Provvidenza e la Grazia Divina, soprattutto con la metamorfosi esistenziale dell’Innominato che da oppressore diventa liberatore di Lucia. E Renzo, seguendo gli insegnamenti di padre Cristoforo, perdona don Rodrigo. Il lieto fine del romanzo: “Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso […] e che quando vengono, […] la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiamo pensato di metterla qui come il sugo di tutta la storia” (Cap XXXVIII).

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