Corno Mozzo, l’anello del potere e l’insegnamento di Gandalf

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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francesco-bevilacqua-foto-blog-nuova_80da1_19973_ea258_59f1c_e96f0_cec4f_df014_db513_eb6b5_f8fb1_2c83a_da5cd_ac61d-1_c49d8_8565a_1a702_73902_90cc3_d8d69_c1afb_508ed_14fbf_1602e_c1835_27877_1f47f_c6130_553d9.jpgCorno Mozzo è una piramide di calcare, instabile e sberciata che si staglia, grigia, su un abisso verde. Domina l’emiciclo di montagne e dirupi che avvolge, ad est, l’alta valle del Fiume Argentino. La sua cima è lievemente appiattita dalla furia degli elementi. Perciò, i pastori che l’osservavano dalla valle, presero a chiamarlo in quel modo. Corno Mozzo indicava loro la direzione di risalita: sotto di lui zig-zaga nel bosco un antico, ripido sentiero che sale nell’unico punto in cui i Crivi di Mangiacaniglia consentono un attraversamento. Per valicare la linea di cresta verso oriente. Sulle carte il toponimo è ubicato male: gettato lì in mezzo a quattro diversi culmini fra i 1200 ed i 1300 metri di quota, oltre i quali una pendice dirupata scende ripidamente sino ai 700 del fiume. I miei ricordi di questo luogo sono due: la prima volta che notai la sua cuspide argentea dopo aver fatto l’ultimo guado dell’Argentino ed esser giunto a Pantagnoli, a quel tempo ancora sgombro della giungla che oggi aduggia il terreno; una notte allorché dormimmo sul suo fianco, durante una traversata a piedi da Piano di Novacco ad Orsomarso. Sono al suo cospetto dopo molti anni. Dal nido d’Aquila appena dietro, l’osservo mentre domina la valle, cinto dalla sua corona di rupi, abissi, vette e foreste. Lucia, Michele e Antonio sono in estasi, increduli per quella visione favolosa. Dico “favolosa” proprio perché essa pare uscita da una fiaba. Sia la prima volta che vidi Corno Mozzo, sia oggi che lo raggiungo per la seconda volta dopo almeno trent’anni, il pensiero vola a Tolkien. Quel nome sembra uscito da “Il signore degli anelli”. Ed anche tutti gli altri. Ecco Castello Noceto, in basso, celato fra i lecci, sulla sommità di quella rupe, lontana, sulla destra della valle. Ecco il Cozzo del Pellegrino a sinistra, con il suo canalone pietroso. Ecco la rupe più bassa, quasi alle nostre spalle, che fronteggia Pietra Campanara, dall’altro lato di Vallone Fornelli. Ecco gli strapiombi paurosi dei Crivi di Mangiacaniglia, dai quali proveniamo, dopo aver effettuato un’erranza in luoghi che nessuno attraversa più. In fondo anche noi siamo una piccola Compagnia dell’Anello in un viaggio fantastico e periglioso.

Mi identifico con Frodo: da molto tempo ho gettato l’anello del potere nella voragine di Monte Fato. Il mio motto è quello di Fedro (strana assonanza con Frodo): “Regnare nolo liber ut non sim mihi” (non voglio regnare, per non divenire schiavo di me stesso). Anche i miei amici sono degli hobbit. Hanno tutti rinunciato alle lusinghe del potere ed aspirano ad una Contea, a delle case semplici e accoglienti dove vivere in pace. Non saremo mai corrosi dal potere. Non diverremo mai schiavi, fantasmi dell’anello, come i Nazgûl. “Un mortale, caro Frodo, che possiede uno dei Grandi Anelli – dice saggiamente Gandalf –, non muore, ma non cresce e non arricchisce la propria vita: continua semplicemente, fin quando ogni singolo minuto è stanchezza ed esaurimento. E se adopera spesso l’Anello per rendersi invisibile, sbiadisce: infine diventa permanentemente invisibile e cammina nel crepuscolo sorvegliato dall’oscuro potere che governa gli Anelli. Sì, presto o tardi, - tardi se egli è forte e bene intenzionato, benché forza e buoni propositi durino ben poco – presto o tardi, dicevo, l’oscuro potere lo divorerà”. Da quanti fantasmi dell’anello, da quanti Nazgûl siamo attorniati ogni giorno? Non è necessario avere grande potere per sbiadire: basta qualche lusinga, qualche delirio, qualche piccola vanità per divenire, irrimediabilmente, schiavi di noi stessi.

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