E il mare va

Scritto da  Pubblicato in Giovanni Iuffrida

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Le correnti marine convogliano tutto nel Golfo di Sant’Eufemia, anfiteatro naturale. Ne sa qualcosa la piccola torre di guardia dell’Amato, che potrebbe raccontare anche storie di piraterie e di contrabbandi.

Certamente, fino a qualche decennio fa, il Golfo accoglieva, tra le sue braccia protese verso il mare, tracce di catrame migrante e galleggiante, prodotto residuale delle navi-cisterna che attraccavano a Santa Venere (Vibo Marina). E una volta scaricati gli idrocarburi, gli enormi mercantili venivano sgrassati dopo aver abbandonato il porto, a poche miglia dalla costa, in barba ai militari di leva e agli Auc (gli allievi ufficiali di complemento del Car, centro addestramento reclute) che si esercitavano nel poligono di tiro nella Marina di Maida sparando a salve contro le sagome in movimento di carri armati sulla linea di battigia. Il nemico nero – catrame purissimo – era a due passi, ma ci si concentrava a colpire l’invisibile, ovviamente chiudendo un occhio, forse per la mira. Paradossalmente oggi non approda nemmeno la pomice eoliana che allora abbondava e veniva utilizzata per smacchiarsi, con tanto di imprecazioni, le piante dei piedi inevitabilmente annerite dal catrame che spesso preferiva pure il costume. Tra le dita era un bel da fare. Sull’arenile, si puzzava più di petrolio che di sudore. Ma fortunatamente, a tratti, si sentiva pure quell’odore di anguria che sapeva di mare pulito. Poi è stata tutta una lunga parentesi, ininterrotta, di spazzatura galleggiante (oggi si parla, con un certo tono, con nonchalance, come si è potuto notare nei recenti convegni, di un non so che di fastidioso, di rifiuti solidi e liquidi urbani) proveniente dai corsi d’acqua, dal mare e da depuratori non proprio efficienti. Si può dire che solo recentemente sono state scoperte, con l’acqua calda, anche le acque luride.

Dalle isole arrivavano anche tracce siciliane. Un Golfo, dunque, assediato, come un tempo dai turchi, non so con quale differenza, perché entrambi erano sbarchi offensivi sull’arenile. Un assedio durato a lungo, ma comunque le “barchette di san Pietro” (le Velelle velelle) – in primavera, lasciandosi trasportare dalle correnti calde e dal vento che qui dalle undici antimeridiane non manca mai – coloravano tutto di azzurro approdando sul bagnasciuga, messaggere di acque pulite, senza inquinamento chimico. Fino agli anni Settanta, qua e là le anguille vivevano bene, si moltiplicavano lungo i corsi d’acqua prima di imboccare il mare, e si lasciavano prendere, nei salti di quota delle briglie traversali, che ne impedivano la risalita. Non servivano “mazzuni” e ombrelli, bastava una retina per farfalle e le anguille vi scivolavano dentro. Raramente qualcuno intorbidiva l’acqua con il Taxus baccata per paralizzare le anguille più grandi e prenderle a tradimento, ma erano pochi i casi di uomini schierati, per la loro sopravvivenza, contro questa natura inerme. Spesso erano dei disperati che non avevano mai incontrato il lavoro e non sapevano come sbarcare il lunario, perciò si attrezzavano nottetempo frodandola. E a nulla è valsa la lotta a mani nude, ma con la forza dell’ideologia e della passione politica, di Pietro Diaco di Acconia, sindacalista di altri tempi, per difendere i diritti, il lavoro, soprattutto la terra dei contadini, che si stavano abituando a convivere con le fragole e che rifiutavano le ciminiere che minacciavano di sputare nubi tossiche di petroliere mai viste. Acque reflue urbane con inquinanti organici si mescolavano alle acque di drenaggio dei collettori di bonifica, ma almeno i batteri anaerobi erano destinati a morire subito. Poi, dagli anni Ottanta, né “barchette di san Pietro” né anguille. Strano, forse. Cosa è successo?

Lo Stato, con la massima coerenza che lo contraddistingue, col “Progetto ’80” ha fatto molto per creare, in un’area che appena qualche mese prima (dell’anno 1967) aveva dichiarato di notevole interesse paesaggistico da salvaguardare, la più grande area industriale petrolchimica del Mezzogiorno d’Italia. Una mirabolante dimostrazione di affidabilità dello Stato e un pessimo messaggio educativo.

Per lo Stato, la Piana di Sant’Eufemia, da svenire per la bellezza stabilita per decreto, si poteva contraddittoriamente devastare con capannoni, opere di urbanizzazione incredibilmente gigantesche, impianti di adduzione del petrolio, piattaforme depurative e centri di raccolta di rifiuti. Tutte opere che ancora oggi deturpano la parte centrale della Piana di Sant’Eufemia e un tratto di pineta senza pari per lunghezza, con un contorno di inquinamento ambientale indotto da lunghe file di camion e compattatori.  Ma il primo piatto forte sono gli assensi originari del Ministero competente in materia di tutela del paesaggio e quelli, incredibilmente continui, della Soprintendenza per i beni culturali in sede di rilascio dei singoli permessi a costruire, con la solita tavolozza acquerellata prescrittiva e fasce verdi di corredo; così la bellezza sarebbe salva secondo una strana scienza conservativa tutta calabrese. Salvo però, poi, dare libero sfogo a pareri studiati a tavolino, disquisendo astrattamente su attività silvocolturali (ovviamente senza conoscere i luoghi e la loro storia) e confondendo dolosamente i boschi con le normali pratiche agricole. Di contro è estremamente difficile che la Soprintendenza autorizzi l’installazione di una lapide commemorativa incolore, e in freddo marmo bianco, con la scritta “Qui giace il bosco Hesclea”, dove cacciava re Carlo. Perché lo disconosce. E intanto il mare (balneabile) va, di bolina, per consolidata responsabilità dello Stato, verso un’altra direzione.

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