L’ebbrezza della teatralità a Lamezia

Scritto da  Pubblicato in Giovanni Iuffrida

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Iuffrida_matita-OK_0e788_db425_50701_ad838_a3ec4_50f5e_39a7a_13eda.jpgNon c’è struttura architettonica che possa rappresentare meglio di un teatro il desiderio di ebbrezza di Lamezia. Una premessa storico-letteraria è individuabile nel manoscritto del 1788 di Ivone Spada – “dialoghi” intorno a cenni storici di Nicastro – elaborato, tra tragici e cruenti eventi naturali (1782-1783) e politici (1799), con un incedere che appare ispirato da una volontà scenica.

La data di nascita del Teatro Numistrano di Nicastro nell’ex chiesa della Sanità è fatta risalire all’anno 1814, immediatamente dopo la dismissione dell’occupazione francese (decennio 1806-1815) di quasi tutte le strutture religiose cittadine utilizzate come dormitori militari. Il Teatro, in pratica, prende forma all’indomani della lunga serie di esecuzioni sul palco allestito dai francesi in piazza san Domenico, eletta come luogo ideale per l’esposizione di veri cadaveri.

Il “popolo minuto”, incattivito dalla fame, peraltro aveva già assistito allo spettacolo sviluppatosi in tutto il territorio Lametino con scontri, rivolte e repressioni interpretate da parte francese con estremo, crudo realismo. Il caprone sacrificale spesso era qualche brigante vero o inventato, spesso con l’aiuto di delatori di quaggiù. Non si avvertiva sicuramente il bisogno di assistere a una tragedia recitata in un teatro, trovandosi spesso difronte alla durezza offerta per strada da uomini appesi a un cappio ed esposti per giorni, come monito alla gente di passaggio. Lo scenario, immobile, statico, muto, ma reale, era sempre la facciata della chiesa di san Domenico (in verità a volte anche quella di san Francesco, in una logica di teatralità ambulante), sita in un luogo di passaggio privilegiato dalla gente comune. Così tutti non potevano ma dovevano vedere.

Questo è il contesto sui cui si inserisce l’iniziativa dei giovani rampanti della borghesia della città, che immediatamente dopo la “messa in scena” del terrore francese, ottengono la concessione dell’ex chiesa della Sanità per allestire, a spese delle loro famiglie, il teatro che prenderà il nome di Numistrano, dove poter rappresentare le loro commedie.

Quella dei giovani rampanti nicastresi era la semplice voglia di uscire dall’incubo del terrore francese o, più probabilmente, il desiderio di celebrare finalmente il consolidamento dell’incremento patrimoniale tramite la vantaggiosa acquisizione dei fondi rustici ecclesiastici, maturata a suo tempo con il beneplacito della Cassa Sacra?

Appare inverosimile, all’indomani del terrore francese, il miracolo di un improvviso desiderio di rinnovamento culturale da parte di “giovani filodrammatici” nicastresi. Soprattutto se corrisponde al vero il crudo quadro sociale “rappresentato” a cavallo della metà dell’Ottocento, in maniera del tutto convergente, da parte di personalità pubbliche quali il vescovo Nicola Berlingieri e il soprintendente Luigi Suriano. In particolare, evidenziavano “l’ignoranza della gioventù, la sua vita oziosa, il suo disdegno per il lavoro e il vuoto della vita”, e una vita sociale che si sviluppava nelle “bettole” così come nelle Confraternite laicali, via di transito verso la carboneria e la massoneria, contenitori utili per garantirsi la partecipazione diretta dell’amministrazione della città e, di conseguenza, per consolidare la pratica della più ampia forma di familismo. Fino al 1858 il Teatro Numistrano rimane luogo privilegiato di incontri della borghesia locale, sostanzialmente lungo tutto il periodo di attività della Carboneria, che ne garantiva l’unità formale nella cura dell’interesse privato e negli intenti, anche se, in ultima analisi, divisa nel concreto delle cose materiali: in ogni caso la formula associativa consentiva agli adepti di esercitare un’efficace forma di reciproco controllo.

Così i giovani rampolli (di ex sanfedisti, di massoni e di carbonari, ovvero di futuri “quarantottini”) assumevano la gestione del teatro, per contribuire localmente alle attività politiche che sfoceranno sostanzialmente nella cosiddetta rivoluzione del ’48. A Unità compiuta, interpreteranno, da protagonisti principali, concreti ruoli nell’amministrazione politica della città e del Parlamento nazionale.

Il tema del teatro viene ripreso sull’onda dell’euforia del successo politico dell’élite borghese e del desiderio di celebrarne eternamente i fasti: la prima amministrazione postunitaria (24 settembre 1861) dà subito mandato ad Antonio Nicotera di elaborare un progetto per un nuovo teatro nel luogo urbano più rappresentativo dei nuovi fasti sociali, ovvero su corso Numistrano, tra la chiesa di santa Caterina e la cattedrale.  Progetto che si trascina a fatica fino al 1870, per ragioni che inducono (nel 1886) al momentaneo riadattamento del vecchio Teatro Numistrano, gestito dalla mano pubblica dall’Unità fino alla Grande guerra. Così sul piano urbanistico, il Teatro Numistrano continua a funzionare come attrattore di famiglie tra le più note del Lametino: Nicotera di Martà, per esempio, si trasferisce da Sambiase a Nicastro realizzando, proprio nelle vicinanze del teatro, la nuova residenza nobilitandone gli interni con l’installazione del primo impianto di riscaldamento e con una raffinatissima carta da parati proveniente da Parigi. Ma non è un episodio isolato se l’intenso e diffuso fervore edilizio ottocentesco attrae anche l’insediamento di nuove famiglie della nuova élite urbana (avvocati, medici, artigiani, agrari, provenienti da altre località che si collocano nei vari piani di ampliamento della città in corso d’opera).

Le tensioni sociali successive alla Grande guerra rinviano giocoforza all’avvento del fascismo il dibattito politico per la realizzazione di un nuovo teatro (risale al 1923 la proposta di progetto di Vincenzo De Marco in prossimità di Piazza d’Armi, subito però scartata, per consentire la realizzazione di un nucleo di edilizia residenziale). Poi, in concomitanza con l’euforia degli anni del consenso fascista, viene concretizzata l’iniziativa di allestire una sala per proiezioni cinematografiche in un’antica struttura (poi denominata Cinema Teatro “Umberto I”) a cura dell’impresa Servidone-Grandinetti. Così quasi per magia, la vita quotidiana della città si arricchisce delle proiezioni in bianco e nero delle pellicole dell’Istituto Luce, che di fatto sostituivano le movimentate celebrazioni del regime all’asfittica attività teatrale. Elementi tutti che costituiscono la premessa per la realizzazione, nel dopoguerra, del “Teatro Grandinetti”, in prossimità dell’area indicata a suo tempo dall’ingegnere De Marco per un teatro pubblico. 

Il recente trasferimento in mano pubblica del “Teatro Grandinetti” coincide con la tragedia della perdurante crisi economica, preceduta e accompagnata da quella istituzionale locale e da una “città dismessa” che non avverte il bisogno dell’alienazione catartica propria della finzione teatrale.

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