Pensare come una montagna

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

© RIPRODUZIONE RISERVATA

francesco-bevilacqua-foto-blog-nuova_a2f0e_44eac_0e1b1_57fb8_5c7ce.jpg

 Solo, nel bosco di cerri, verso Monte Faggio. Una meta consueta, fra le mie montagne. Ma cosa so io, realmente, di queste montagne? Certo, ho percorso tanti sentieri, valli, crinali. Certo, ne ho scritto molto. Certo, ho studiato, letto conosciuto, incontrato luoghi, comunità, persone. Ma non ho mai pensato - nemmeno una sola volta - di conoscere davvero le montagne della Calabria. Alle quali ho dedicato tanta fatica, tanta gioia, tanti libri e articoli, tante battaglie, tante lacrime amare. No, non potrò mai conoscerle nel profondo! E non è solo perché non basta un’intera vita per percorrerle tutte. No, non è per questo! Non le conoscerò per davvero finché resterò un uomo che vive laggiù, in quella pianura gremita di palazzi, affollata di attività, brulicante di umani. Non le conoscerò per davvero finché avrò la pretesa di salire su di esse da cittadino, con la testa, con il pensiero del cittadino. Finendo così, paradossalmente, per abbassarle piuttosto che elevarle, per farle “pensare” attraverso me piuttosto che io “pensare” come loro. Questo intuisco, stamattina, mentre cammino, fra le ginestre addormentate nell’inverno incombente, fra i ricami vuoti degli ontani, fra le colonne nude dei faggi, sotto il cielo invaso di nubi livide, che cullano piogge. Lo ammetto: anch’io nell’andare in montagna provo godimento! Non lo chiamo “divertimento” perché mi pare non sia la parola giusta. Col tempo, “divertimento” ha assunto un significato consumistico, edonistico ed a volte perfino egoistico. Dunque, anch’io, in montagna, provo godimento. O, se volete, provo gioia. E’ una gioia fisica, psichica, morale e spirituale. Ma non è “divertimento”. Direi, parafrasando Kahil Gibarn (che si riferiva all’amicizia): l’andare in montagna non è un’opportunità ma una dolce responsabilità. Nel gioire faticando in montagna, osservando un paesaggio di foreste, laghi, picchi rocciosi, fiumi, cascate, grandi alberi, rovine di umili civiltà, piccoli borghi, creature che vi abitano con pari dignità (uomini, piante, animali, pietre, acque …), io mi emoziono, mi commuovo, mi sento trasformato … Ma, nello stesso tempo, avverto l’urgenza di impegnarmi perché tutto questo conservi la sua autenticità, la sua anima, il sui genius loci. Per se stesso, innanzitutto, per il suo mondo e le sue creature, ma anche per ciò che esso può insegnarci di buono e di diverso rispetto al pensiero unico urbano-centrico, ego-centrico. Ora, siamo certi, noi, la grande famiglia dell’alpinismo e dell’escursionismo, di voler salvare l’autenticità di quella che giustamente definiamo – perfino negli statuti delle nostre associazioni - “cultura della montagna”?

E siamo sicuri che tutti noi intendiamo la stessa cosa quando parliamo di “cultura della montagna”? Non sarà che talvolta scambiamo il nostro salire sui monti per cultura della montagna? Non sarà che talvolta, quando pretendiamo di scrivere di montagne non finiamo per scrivere, più banalmente, solo delle nostre belle, emozionanti, eroiche salite sui monti? Non sarà che nell'innalzarci verso le vette, in realtà stiamo trascinando quelle stesse vette verso il basso da dove proveniamo? Lo storico Fernand Braudel diceva che le montagne del Mediterraneo sono il luogo d’elezione per la conservazione della memoria. Perché lontane, alte, appartate, non agevolmente raggiungibili, non facilmente omologabili. Un narratore ormai dimenticato, Corrado Alvaro, riferendosi ad una montagna considerata – a torto - “minore”, l’Aspromonte degli anni Trenta del secolo scorso, scriveva: “come al contatto dell’aria le antiche mummie si polverizzano, si polverizzò così questa vita. E’ una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie”. Entrambi profetizzavano che qualcosa di esiziale stava accadendo nei sacrari della memoria sulle montagne, e che ciò non era buona cosa. L’ultimo grande allievo di Braudel, Maurice Aymard scrisse pagine di fuoco sulla banalizzazione delle montagne invase fa finti amanti delle montagne. Tutti sapevano che la morente civiltà delle montagne poteva insegnarci qualcosa, poteva trasmettere all’iperbolica civiltà delle pianure e delle città un modo più autentico di stare al mondo. Autenticità contro artificio. Identità contro omologazione. Rispetto contro insolenza.

Ecco, io temo, invece che oggi l’andare in montagna sia divenuto – forse incolpevolmente – puro e semplice divertimento. Mentre, la cultura della montagna avrebbe urgente bisogno invece di un’assunzione di responsabilità verso un mondo, come direbbe Ernesto De Martino, soggetto ad una vera e propria apocalisse culturale: civiltà, pratiche, attività, comunità, ecosistemi, paesaggi, modi di concepire il mondo, memorie che vengono inesorabilmente travolte dall’invasione di cittadini domenicali, portatori insani di culture aliene, fomentatori delle peggiori retoriche montanare, animati da scopi puramente egoistici. Non nego che le nostre associazioni si impegnino per la tutela dell’ambiente montano nel suo complesso o per opporsi a specifici tentativi di distruzione. Penso, piuttosto, che l’atteggiamento di chi frequenta le montagne provenendo dalle città – salvo eccezioni – è quello di chi, spesso inconsapevolmente, esporta in montagna - per ragioni estetico-edonistiche o scientifico-utilitaristiche - mentalità, pratiche, consuetudini tipicamente cittadine. Forse ai nostri proclami non seguono azioni coerenti. Forse dovremmo chiarirci, una volta per tutte, cosa intendiamo con la tanto blaterata “cultura della montagna”. Le montagne ed i loro abitatori (tutti gli abitatori) avrebbero bisogno di maggior comprensione, di maggior rispetto da parte nostra. E chissà che così facendo non si riesca a coniugare il godimento con la responsabilità, che non si riesca ad apprendere dalle nostre salite domenicali che altezza non è sinonimo di arretratezza e che quel mondo che per secoli abbiamo saccheggiato, trasformato, omologato, “abbassato” alla quota delle pianure e delle città, avrebbe invece, ancora, qualcosa da insegnarci. Ma, per riuscire in questo intento, siamo noi a dover sperimentare in noi stessi una mutazione epocale: imparare a “pensare come una montagna”, diceva Aldo Leopold. Abiurare la certezza che solo in pianura e nelle città vi sia la civiltà. Emanciparci dal nostro imprinting antropocentrico ed egocentrico. Provare ad immedesimarci – parola bandita dal vocabolario contemporaneo – fin nel nostro intimo, con le montagne e con tutti i loro fragili, smarriti abitatori.

© RIPRODUZIONE RISERVATA