Perché vogliono far morire i borghi del sud. Cosa accomuna Africo, Careri e Riace

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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 Chiudono le scuole di Careri, di Canolo, di Roccaforte del Greco, in Aspromonte. Ne ha dato notizia lo scrittore Gioacchino Criaco, chiamando tutti alla mobilitazione. Nello stesso tempo si cerca di cancellare esperienze come quella di Riace, dove al vuoto delle partenze si risponde col pieno dell’accoglienza. Il proposito complessivo che accomuna queste due “soluzioni finali” non è dissimile da quello che portò all'evacuazione di Africo e di tanti altri paesi, frazioni, villaggi della dorsale appenninica, dopo le alluvioni degli anni ‘50 e ‘70. A quell’epoca le evacuazioni e le deportazioni di intere popolazioni furono volute non per ragioni geologiche (si scoprì che molti centri avrebbero potuto essere ricostruiti nei loro siti o nelle immediate vicinanze) ma per motivi politici: i governi centrali non potevano consentire che “sacche” di vita, di cultura e di micro-economia locale sopravvivessero in luoghi isolati e distanti dai centri di controllo del potere. Tanto più che quelle genti avevano dimostrato una certa riottosità verso le imposizioni piovute dall’alto e verso le ingiustizie che i potentati nazionali e locali perpetravano quotidianamente contro di loro. Lo stesso accade oggi. Un territorio abbandonato dalla sua gente diviene un “non luogo” secondo l’accezione dell’antropologo Marc Augé, ossia un luogo non più storico, relazionale, identitario. E un “non luogo” non ha più valore, non ha più dignità. Quel “non luogo” ha solo un prezzo. Cosicché può essere comprato a buon mercato dagli sviluppatori delle pale eoliche, delle centrali a biomasse e quant’altro, per come è del tutto evidente, ad esempio, nelle aree interne della Calabria. E un bel borgo diventato “non luogo” può essere comprato da qualche gruppo finanziario russo o cinese o americano per trasformarlo in una Disneyland del turismo internazionale. In quest’alveo si deve anche collocare il tentativo di far fallire l’esperienza di Riace, dove si era risposto allo spopolamento da parte dei locali con l’accoglienza verso gli stranieri. La logica è identica. Non si può tollerare che i paesi dell’interno tornino a ripopolarsi in qualunque modo, che i residenti ridivengano custodi dei loro territori. Né si può consentire che tutto ciò che è “locale” (quindi non omologabile) rinasca in una visione globale, proprio grazie all’apporto vivificatore di culture altre. E’ la logica della concentrazione della più gran parte della popolazione mondiale attorno alle città piccole e grandi, sino alle immense megalopoli asiatiche o americane.

Più la gente vive concentrata in contesti urbani, più è utilizzabile come serbatoio di consumo coatto e di comportamenti omologati, anche sul piano politico. Più i territori extra urbani sono spopolati, più possono essere liberamente “spolpati”. In questo senso capisco chi crede che la grande migrazione di gente del sud del mondo verso il nord del mondo è sì causata da guerre, carestie, cambiamenti climatici, ma è anche favorita da chi vuole che la pigrizia dissipativa degli occidentali venga rinvigorita dalla fame di consumi di chi proviene da paesi dove si vive di scarti e di rifiuti. Paesi, come quelli africani, che, per la stessa logica, è utile che si svuotino per poterne saccheggiare più comodamente le risorse naturali da parte dei grandi gruppi finanziari mondiali. E non bisogna neanche dimenticare che mantenere sparse sul territorio comunità di residenti vuol dire necessariamente far ricorso a quella spesa sociale che oggi tende ad essere cancellata. Perché, come osserva acutamente Tony Judt in “Guasto è il mondo”, la logica del liberismo e del mercato non può valere per quei bisogni primari ed essenziali che solo lo Stato può assicurare a tutti i cittadini in modo equo e solidale. Scriveva l’economista - oggi tanto bistrattato - John Maynard Keynes: “Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Probabilmente saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo”.

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