Più ombre che luci

Scritto da  Pubblicato in Giovanni Iuffrida

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Iuffrida_matita-OK_0e788_db425_50701_ad838_a3ec4_50f5e.jpgDi sera, tra i lampioni che illuminano poco più delle prime lampade a gas della città antica e il deserto spettrale di questi giorni, corso Giovanni Nicotera appare, ancora una volta – oggi suo malgrado – il simbolo della città. La sua rigida geometria, che aveva delle ragioni alla fine dell’Ottocento, rende la strada ancora più fredda. Un tempo rappresentava la modernità, l’avvenire industriale, il futuro possibile. Collegava la città antica con la nuovissima stazione ferroviaria, che riassumeva modernità e ottimismo. Oggi unisce antico estinto e contemporaneo in via di estinzione, con binari senz’anima.

Giuseppe Amendola (1854-1910), che ha voluto fortemente la realizzazione di viale Stazione per modernizzare la città, si sta ancora chiedendo perché non gli hanno intitolato questa importante strada, che ha ideato e voluto prodigandosi con tutto l’impegno necessario. Comunque, pare che in queste ultime ore di strade semideserte, lo spirito di Amendola ne abbia approfittato per “collaudare” la validità della sua opera, che ancora oggi, a distanza di più di un secolo, appare in grado di dare insegnamenti su come si possa organizzare una città. Sembra ancora agitarsi con i suoi baffoni lungo i marciapiedi, approfittando del silenzio e della solitudine, coperto da una giacchetta alla cacciatura (quale componente della locale Società Operaia) e da una mantellina nera. Il freddo gli impone un cappello con larghe tese, e sembra quasi volersi nascondere. Forse non ricorda che è morto nel 1910 e che, di fatto, oggi è invisibile ai nostri occhi.

Una scelta, la sua, di sindaco (dal gennaio 1885 al febbraio del 1889) e poi di grande assessore ai lavori pubblici, nonostante il contesto culturale difficile e ostativo. Il viale della Stazione rappresentava la modernità, la forza produttiva. Sarà completato “a spizzichi e bocconi” dopo la Grande guerra, lentamente, nel suo attuale sviluppo, in sessanta anni. Prima l’esproprio, poi la “massicciata” realizzata a colpi di badile, infine i larghi marciapiedi, il primo timido impianto di illuminazione e le alberature sulle quali si imporranno (nel secondo dopoguerra) sproporzionate e invasive costruzioni. Nella sua attività pubblica ha lasciato ai posteri l’idea progettuale di una grande opera; una delle poche che di fatto collocavano, con diritto, la città nel più ampio contesto culturale nazionale. Una grande strada che assurgeva a modello di espansione della città, a tal punto che chiunque si sia impegnato nell’urbanistica cittadina, dai primi anni del Novecento fino agli anni Sessanta, ha dovuto tener conto, semplicemente seguendo l’istinto, della rigida geometria del viale. Il rigore planimetrico di fatto si è imposto sugli istinti individuali, ma nulla ha potuto rispetto alla densità edilizia e alla qualità delle aggregazioni lungo il suo sviluppo.

Amendola è deluso, si siede sulla panchina con lo schienale rotto tenendosi la testa tra le mani. Non parla, ma sembra dire che il suo impegno di assessore è stato inutile.

Soltanto la luna, che si fa spazio tra le nuvole, illumina la stazione ferroviaria e il volto di un vetturino che, per indispettirlo, gli indica l’intitolazione del viale (oggi corso) a un ex ministro, su una fredda stele marmorea. Si gira all’improvviso stizzito e, roteando la mantellina come se fosse una toga, inizia un’arringa, riprovando la sua abilità di avvocato.

“Un ex ministro? Ma se ha preferito Salerno al Lametino dopo essere stato eletto nelle consultazioni elettorali del 1865! Qui, forse nessuno conosce la storia”, lamenta, stringendo i denti.

Giuseppe Amendola forse ha ragione. Da queste parti si sa come vanno le cose umane. Tutto viene valutato sulla base della posizione di potere. Più è elevato il ruolo nella gerarchia istituzionale, maggiore è la considerazione tra gli altri poteri e, ovviamente, tra la gente comune abituata a subire falsi miti e ignoranza. Il potere determina decisioni e considerazioni positive immotivate. Del resto Giovanni Nicotera ha avuto ruoli di potere a livello nazionale nell’ambito del gruppo parlamentare della Sinistra ed ha assunto per due volte la carica di ministro dell’interno. Ma è stato anche – come scrivono gli storici – una figura “complessa e contraddittoria”, con un bilancio di luci della ribalta ma anche di molte ombre, con giudizi a volte impietosi legati a tutti quegli aspetti negativi connessi al trasformismo della seconda metà Ottocento: il dato positivo viene confinato nell’ambito di un patriottismo giovanile istintivo e nell’amicizia con Carlo Pisacane. 

Per questo Giuseppe Amendola che conosceva quel contesto storico, avendolo respirato da ragazzo, non si dà pace e si chiede come abbiano potuto intitolare ad un ex ministro la strada più importante, nonostante i nicastresi, nella prima parte del secolo scorso, si siano persino rifiutati di allocare una statua in suo onore in fondo al viale della Stazione. Peraltro, sebbene si sia battuto per la linea Eboli-Reggio Calabria (anche in questo caso con luci e ombre), i centri di Sambiase e Nicastro sono stati collegati soltanto con la linea istmica.

Ma Giuseppe Amendola se ne deve fare una ragione. In questo paese, che pretende di essere una città, ti intitolano una via se hai avuto un posto di potere condizionante, a prescindere dal giudizio della storia, del senso comune e dell’utilità pubblica delle “cose” che hai fatto. Qui la toponomastica è una questione di amicizia, di ruga e di “vignano”, e in molti casi di mitomania. Per sfuggire a certe scelte, che spesso suonano come un delitto, a volte sarebbe meglio intitolare una via al Colera, alla Malaria, alle Paludi (peraltro esiste un paesino calabrese con questo nome). Del resto sono finiti i tempi in cui il nome dei luoghi aveva un senso comune, legato com’era alle loro peculiarità, al valore riconosciuto e condiviso, sedimentato dalla storia e dalle azioni umane che possono dare significato culturale ad una strada, ad una città e tali da poter essere considerate utili insegnamenti per un buon uso del territorio.

Quante figure veramente eroiche, semplici e altruiste possono dare un senso ai luoghi di questa città, con degne intitolazioni, a futura memoria del loro sacrificio in nome e per conto di tutti? Ieri certamente il contadino che eroicamente combatteva contro la malaria, oggi il medico, l’infermiere e le tante persone comuni che si espongono per gli altri, perché sono in molti ad aver fatto e a fare gli eroi, in silenzio, senza occupare devastanti posizioni di potere.

Purtroppo, come ha scritto in questi giorni Gioacchino Criaco citando Corrado Alvaro, noi meridionali “dei greci abbiamo preso il loro carattere di mitomani”, inventando pure delle leggende; e – continua a scrivere con parole sue – forse, fino all’altro ieri, ci potevamo vantare solo di un bel po' di accoglienza e ospitalità, in ogni caso “senza alcun quarto di nobiltà o invenzioni o opere immense”.

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