Il problema sanità, ecco cosa fare

Scritto da  Pubblicato in Filippo Veltri

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“C’è la metà degli italiani, quelli che rappresentano la parte più povera di economia produttiva e di occasioni di lavoro, che rimedia appena i Lea, spesso confidando nella generosità dei propri medici. Ci sono regioni ove, anche in presenza di sospette malattie gravissime, è difficilissimo conquistare un posto letto piuttosto che una mammografia o una risonanza magnetica. Queste regioni sono quelle che compongono il Mezzogiorno allargato a centro-sud. Un territorio vilipeso da una sanità che non funziona, che ciononostante finanzia, attraverso la mobilità passiva, le casse di quelle Regioni che hanno investito nel c.d. ‘turismo sanitario’. Quello stratagemma che produce, per esempio, introiti straordinari alla Lombardia, di circa 600 milioni di euro all’anno. Un po’ meno di un quinto di quanto costa tutta la sanità in Calabria, che ne paga 260 per i calabresi che intraprendono i viaggi della speranza’’. Così si è tra l’altro espresso, in una recente intervista a quotidiano sanità, il prof. Ettore Jorio, che insegna all’Università della Calabria, sul problema sanità in Italia.  

“Il problema – ha aggiunto Jorio - è quello di capire che la sanità così com’è non va bene ovunque. Il fenomeno della migrazione salutare assume un valore culturale che, in quanto tale, si recupera in anni di credibilità, formata soprattutto sulla rinascita del servizio territoriale, che invece latita. Altrimenti, non sarà possibile arginarla. Non solo perché ricostruire il senso di fiducia, di chi non l’ha mai nutrita, è cosa rara e difficile bensì perché l’essere in Europa vuole dire accettare le regole di potere liberamente rintracciare in tutta l’UE l’assistenza che necessita. La recente disciplina per l’assistenza extra-frontaliera va in tal senso e, quindi, incentiva l’acuirsi del fenomeno.A tutto questo viene ad aggiungersi un altro problema interno: quello di avere metà Paese in piano di rientro e un quarto delle Regioni commissariate. Una gestione straordinaria che non va, dal momento che, ivi, peggiorano i servizi, si desertificano i siti assistenziali, rimane al palo l’assistenza territoriale e gli unici risparmi derivano dal blocco del turnover che, di qui  a poco, renderà vacanti gli unici punti che funzionano (i pronto soccorso e le corsie dei soliti ospedali), per abbandono degli attori che li animano con la loro professionalità e il loro senso di abnegazione’’

E ancora: “Riformare il sistema è oramai un dovere ineludibile, così come necessita tagliare tutto ciò che non serve e ottimizzare ciò che rimane. La storia della sanità dell’ultimo trentennio ha dimostrato la perdita del concetto idealizzato di tutela della salute, considerata nella sua universalità, globalità e uniformità.Ha prodotto 21 repubbliche “indipendenti”, ciascuna delle quali ha fatto ciò che sapeva fare. Molte, di quelle in piano di rientro, hanno gestito le risorse destinate alla salute così come hanno fatto con tutto il resto, fondi comunitari compresi. Praticamente non hanno fatto nulla, peggiorando spesso le cose da un anno all’altro. Lo scopo è stato (quasi ovunque) di mantenere la sanità sotto l’egida della politica, interessata com’è a gestire il potere, l’occupazione e il denaro che una siffatta attività determina. Insomma, nominalmente è successo nella sanità ciò che sta accadendo con il sistema dei Comuni, in profonda crisi di liquidità. Si è pensato che fosse sufficiente tirare fuori uno strumento di gestione straordinaria affidato, peraltro, agli autori del disastro. Da qui, il piano di riequilibrio pluriennale dei Comuni ha assunto la denominazione di predissesto. Quello di riorganizzazione e riqualificazione dei sistemi sanitari regionali è diventato il piano di rientro”.

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