Al confine col cielo

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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Sveglia alle 4. Viaggiamo per due ore al termine della notte, come direbbe Celine. Il quale pensava che ogni buon cittadino ha in odio la natura selvaggia. E’ la sicurezza protettiva dell’urbanesimo, contro l’oscurità insondabile delle selve, dei deserti, delle montagne, degli oceani. Traversiamo la Sila da ovest ad est. Ci tuffiamo verso la valle del Trionto. All’alba siamo all’attacco del vecchio sentiero che da Longobucco, m. 720, s’innalza sulla pendice meridionale di Monte Paleparto, in Sila Greca. C’è con noi Sasà Pellegrino. Non riesco ad immaginare Longobucco, Monte Altare, il Fiume Trionto, Monte Paleparto senza di lui. Senza la sua sagoma alta, i suoi capelli grigi, i suoi occhi verdi, la sua andatura caracollante, di chi, nella vita, ha tanto tribolato. Senza la sua solitudine estiva in una capanna di legno sull’apice della montagna, a scrutare l’orizzonte in cerca di incendi da domare. Senza la sua semplicità contagiosa. Senza il suo attaccamento alla terra. Senza il suo desiderio di condividere una passione per luoghi che quasi tutto il paese ha dimenticato. In alto, Pietra Gnizzito è poderosa, dirupata, impervia. Una rupe appiccicata alla pendice, come in procinto di sfasciarsi, e rovinare in basso. Percorriamo un sentiero antico. Ripidamente. Ai nostri piedi il paese, assopito e caldo come una mandra, direbbe Corrado Alvaro.

In mezzo l’abisso delle gole del Trionto. Lecci, pini, cerri, ginestre, euforbie, rose canine, rovi. Gli aceri cominciano ad arrossarsi. Pianoro di Tavazzo: visione mistica sul Trionto. Dall’alto, pare un rettile addormentato. In questa alterità onirica risiede il mistero del sacro (“separato”: dal mondo profano e civilizzato della città), secondo Rudolph Otto. Stracci di nebbie alte nel cielo velano la luce. Uno degli ultimi pastori e il suo stazzo. Un tempo i pastori vivevano qui in capanne coniche giunte a noi, identiche, sin dalla preistoria. Al Colle della Stazione i resti della teleferica della Feltrinelli, da dove partivano a decine di migliaia, sino metà del Novecento, i tronchi immensi di queste selve primigenie di pini, faggi, querce. Altra visione sul Trionto. Osserviamo rapiti la sagoma di Serra Sant’Angelo che scende verso le gole. Sarebbe il nostro percorso di rientro. Ma rischiamo di far notte proprio nelle gole. Saliamo invece sulla cima della Sila Greca, Monte Paleparto, m. 1480. In un solo colpo d’occhio, la Sila, il Mar Ionio, il Pollino, l’Orsomarso. Ricordo le incredule descrizioni di Norman Douglas, di Duret de Tavel, lo stupore delle loro traversate a piedi qui. Quando tutto era una landa intricata e selvaggia. Percorriamo tutto il filo di cresta, sino alla Pigolara. Ammasso portentoso di rupi a picco, di cerri e di pini monumentali. Che incorniciano visioni di foreste a perdita d’occhio, valloni, crinali, che digradano verso il mare. E’ in luoghi come questi che comprendi perché le montagne, da sempre e in tutte le culture, siano dimore di dei. L’Olimpo, il Sinai, il Tabor, il Fujiama, l’Himalaya. E se gli uomini fuggono dagli ultimi sacrari montani della Calabria, dai paesi che si acciambellano ai loro piedi, se gli uomini svendono il loro luoghi al peggior offerente, se gli uomini non hanno più rispetto del sacro che li circonda, gli dei no, non vanno via. Gli dei non lasciano le loro dimore al confine col cielo.

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