Calamità naturali e interventi umani nella Calabria del Settecento

Scritto da  Pubblicato in Francesco Vescio

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 Nel Settecento la Calabria fu devastata da varie calamità che possono essere considerate dei veri e propri flagelli naturali che colpirono la popolazione con terribile violenza: alluvioni, periodi di siccità, gelo e terremoti. Nel presente scritto di tratterà di alcuni eventi, fra i più disastrosi, e si darà conto dei vari interventi messi in atto per farvi fronte, per come era possibile con i mezzi di cui si disponeva. La posizione geografica della regione e la sua morfologia la espongono ai fenomeni sopra indicati, per come esplicitato nel brano successivo: “Si è accennato ad una particolarità climatica della Calabria, e non a caso: basta dare uno sguardo alla carta geografica per notare alcuni aspetti salienti di questa estremità peninsulare d’Italia: una lunga striscia di terra ben affondata al centro del Mediterraneo, uno sviluppo costiero notevolissimo in proporzioni  alle dimensioni del territorio, la relativa prossimità al mare di qualunque zona della regione (nessun punto ne dista più di 50 chilometri) , unita ad una notevole montuosità del rilievo; la netta divisione longitudinale, anche orografica, in due fronti, uno esposto perfettamente ai caldi influssi sciroccali d’origine africana, l’altro alle raffiche umide del libeccio di matrice atlantica: queste ed altre circostanze fanno sì che la Calabria si configuri come zona di non piccoli contrasti su un territorio così limitato [...] La costa tirrenica, volta all’occidente atlantico, è, come si vede, in condizioni più vantaggiose in grazia di un indice di piovosità lievemente più marcato e per un contrasto meno duro tra periodo freddo-umido e periodo caldo-arido. Ma in effetti in Calabria lo stacco tra i due estremi è abbastanza stridente giacché la piovosità si concentra totalmente in inverno lasciando a una lunga estate il compito di illuminare il suolo nella più completa serenità…” (Augusto Placanica, Nel Settecento calabrese, fluttuazioni climatico-produttive e rapporti di classe, in ‘Civiltà di Calabria – Studi in memoria di Filippo De Nobili a cura di Augusto Placanica, Edizioni Effe Emme, Chiaravalle C.le, 1976, p.336 ). In relazione al fenomeno delle alluvioni, con frequenti conseguenze di frane e di esondazioni di tanti  corsi d’acqua, che, in diverse occasioni, apportarono gravi danni alle abitazioni e  alle coltivazioni, si riporta il seguente testo che offre un quadro storico molto significativo del fenomeno in questione: “Fino a metà del diciottesimo secolo gli straripamenti di cui si ha memoria non erano stati numerosi: e colpivano solo le zone prossime ai fiumi principali (si ricorda come paurosa l’inondazione del Crati nel 1590, che secondo una relazione coeva, a Cosenza “annegò tutti li pignatari [= orciaioli, che dimoravano nel borgo omonimo] e buttò tutte le mura dei giardini a terra… e dove passava facea gran danni”). Ma poi il numero dei dilagamenti crebbe e negli ultimi lustri di quel secolo l’economista Domenico Grimaldi doveva constatare la gravità di anno in anno saliente delle inondazioni, a cui i locali si disponevano come a eventi ordinari. Tra il 1788 e il 1790 i fiumi della piana di Rosarno, nel 1790 l’Ancinale, nel 1795 le fiumare aspromontane che si versano nello Stretto ai lati di Reggio (il Calopinace  e l’Annunziata e il Torbido), recano disastri ai paesi della costa. E la frequenza delle inondazioni aumenta via via nel secolo seguente…” (Lucio Gambi, Calabria, Utet, Torino,1978, pp.104-105).

Nello stesso secolo periodi di intenso caldo e di rigido freddo si alternarono nella regione con gravi conseguenze sulle condizioni di vita degli abitanti, per come viene riferito nel passo successivo: “A inverni freddissimi accompagnati da tempeste sono dedicati alcuni rapidi accenni nella parte introduttiva della fonte [ Tale fonte è riportata dall’autore in piè di pagina 337, nota 9 : Diario di quanto successe in Catanzaro dal 1710 al 1769 incominciato dal signor Giovambattista Mojo fino al 1732 e dal 1733 sino al 1769 seguito dal signor Gregorio Susanna, ms. conservato alla Biblioteca Comunale di Catanzaro (Raccolta De Nobili, ms.28), N.d.R. ] di cui ci andremo servendo: così per il 1708 e il 1709. Ogni volta la distruzione delle piante e dei raccolti era pressoché completa e veniva a determinarsi anche la morte di larghe porzioni di bestiame, se non addirittura di persone: così il 7 ottobre 1717, nella notte, a Catanzaro, << fu un temporale e spiantò lo mulino dei Padri Gesuiti detto ‘Mannarino’ e la corrente annegò tre persone, una lavandara e due figli; il mulinaro si salvò; i vecchi della città non si ricordano simile ruina; parve castigo di Dio>> . Questa ricerca, però, intende fare riferimento solo a un arco di anni descritti omogeneamente e con assoluta continuità, cioè dal 1739 al 1769. […] L’anno del terminus a quo, il 1739, fu dominato dal caldo: ‘In questo mese di giugno 1739, alli 23 detto, incominciarono i caldi che non si poteva stare di nessuno sito, e tuttavia durano, in pregiuditio di tutti li frutti e viti, quali sono inariditi per il calore’ […] Ma questa fase di eccezionale calore ( e proprio eccezionale la considera il cronista ) si collega a un brevissimo momento d’interruzione all’interno del lungo periodo di freddo europeo che, com’è noto, nel Settecento riprese vigore negli anni 1715-1720 e si accentuò proprio dal 1740 in poi” (Augusto Placanica, op.cit., pp.337-338).

L’autore nel suo scritto dà altre numerose informazioni sulle variazione climatiche estreme, che si verificarono nella regione, ed, inoltre, fornisce dati  significativi sugli scarsi raccolti in conseguenza della calura eccessiva e della siccità oppure dei rigidissimi freddi, che colpirono la regione; gli scarsi raccolti facevano aumentare in modo eccessivo i prezzi delle derrate alimentari, provocando frequenti carestie, che colpivano pesantemente i ceti popolari, nonostante alcuni interventi delle autorità, per lo più poco efficaci,  per mitigare i danni tentando di  limitare il vertiginoso aumento dei prezzi. Ma la calamità più disastrosa che colpì la regione fu certamente il terremoto del 1783, nel testo che segue si danno delle informazioni particolareggiate che ne indicano la spaventosa gravità: “Frequenti e di varia entità erano state le scosse per tutto il corso del secolo. Ma nessuno poteva prevedere la catastrofe del 1783. Il 5 febbraio intorno alle 13 una prima lunga terribile scossa con epicentro a Terranova già ‘bastò per rovesciare tutto e per distruggere tutto’ scrisse il geologo Dolomieu’. ‘I paesi e tutte le campagne furono smantellate nel medesimo istante. I fondamenti parvero come vomitati dalla terra che li rinchiudeva. Le pietre furono attrite e triturate con violenza le une contro le altre, e la malta che le riuniva fu ridotta in polvere’. Voragini, frane, fiumi straripati sconvolsero la terra, mentre in città e paesi ai crolli seguivano gli incendi. Uno scenario apocalittico […] Tutta la Calabria ulteriore fu colpita. Ma violentissimo e disastroso il terremoto fu nell’area dell’Aspromonte e le Serre, prolungandosi a Sud a Reggio Calabria e Messina, a Nord al confine con la Calabria Citra. Nell’area più colpita, tutti i centri furono distrutti, con un numero di vittime oscillante fra un terzo e i quattro quinti della popolazione.  Alla prima scossa altre ne seguirono, gravissime nella notte fra il 5 e 6 febbraio: Gli abitanti di Scilla rifugiati sulla spiaggia, primo fra tutti il principe Fulcone Antonio Ruffo con la sua corte e parentado, furono quella notte inghiottiti in pochi secondi dal mare sconvolto dal crollo di un’intera parete del monte Pacì. Morirono più di 1.400 persone, oltre a quelle già perite sotto le rovine.  Nuovi terribili danni le scosse del 7 febbraio provocarono a Reggio, a Messina, e nelle zone del versante ionico dapprima rimaste immuni. Il 28 marzo fu la volta del catanzarese e di tutto l’istmo centrale, con propagazioni meno gravi nella Calabria Citra fino a Cosenza. Danni e scosse continuarono a succedersi per tutto l’anno seguente e oltre. Circa trentamila furono le vittime in Calabria Ultra. I danni agli immobili furono calcolati in 31.250.000 ducati. Si iniziava così una ‘ Iliade funesta’ di miserie e di sventure, come molti la chiamarono. Fame, freddo, infezioni colpirono i superstiti” (Anna Maria Rao, La Calabria nel Settecento, in ‘Storia della Calabria Moderna e Contemporanea - Il Lungo Periodo’, Gangemi Editore, Roma- Reggio Cal. , 1992, pp. 365-366 ). L’orribile calamità suscitò dolore e commozione anche al di fuori dei confini regionali; l’eco dell’evento spaventoso si diffuse in Italia e in Europa. Nel Regno di Napoli si riscontrò un notevole interesse sugli interventi necessari, anche se vi furono notevoli differenze di opinioni, per come viene esplicitato nel passo successivo: “Per nobili e riformatori, illuministi e massoni, togati e forensi, per lo Stato e per le istituzioni amministrative e culturali, il terremoto di Calabria del 1783 costituì un enorme drammatico banco di prova. Chiesa e baroni rivendicarono il proprio ruolo di tutela e di assistenza delle popolazioni sconvolte, la prima invocando il giudizio di Dio su una catastrofe che solo ateismo e incredulità potevano rendere giusta. Il riformismo nel suo insieme dové dar prova degli strumenti di cui si era dotato in cinquant’ anni di monarchia nazionale.

Illuministi e scienziati vi trovarono un campo straordinario di studi e riflessione sulla natura e sull’uomo, sul ‘fisico e il morale’, lezioni e conferme di una storia apocalittica e ciclica. Videro confermate previsioni e timori di catastrofi, ma anche alimentate speranze e attese di palingenesi, di rigenerazione totale” (Anna Maria Rao, Ibidem, p. 364). Per gli interventi concreti furono mobilitate le migliori energie del Regno sia in uomini sia in mezzi; ma le risorse disponibili erano insufficienti rispetto alle necessità dei bisogni urgenti e della successiva opera di ricostruzione. Al fine di reperire mezzi finanziari più cospicui per i diversi interventi nelle zone terremotate venne istituita la Cassa Sacra, i cui fini, le modalità di reperimento delle risorse e i risultati conseguiti sono indicati nel brano successivo: “La corte borbonica, da parte sua, credette di curare la catastrofe contingente e le dure conseguenze di molti secoli di caos, con l’istituzione di una speciale <Cassa> (detta <sacra> perché formata con la requisizione di beni e rendite della chiesa romana , che aveva in proprietà  un sesto per lo meno della Calabria meridionale) a cui assegnò il compito di  dividere equamente fra i coltivatori non proprietari i beni incamerati e di giungere a una migliore ripartizione dei gravami fiscali (fino a quel tempo ricadenti in notevole parte sui ceti miseri) e di iniziare a metter in opera quei lavori di utilità comune (strade, ponti ecc.) che erano stati invano caldeggiati da una cinquantina d’anni in qua. La perfida gestione finanziaria e la deficienza di un piano razionale di lavoro costrinsero l’impresa a rovinare in mezzo a contrasti d’ogni genere.  In realtà, giovandosi del totale scompiglio sociale e degli intrallazzi dei procuratori fiscali che avevano parte nella gestione della Cassa, l’unico gruppo che ne trasse un utile fu la borghesia che – più dei baroni indebitati- poté fare in questa occasione gran raccolta di terre, con i sistemi meno onesti (Lucio Gambi, op.cit., pp.186-187). Dal testo precedente si può inferire che al disastro sismico si tentò di rimediare anche con iniziative innovative, ma i risultati conseguiti furono in realtà molto limitati rispetto ai bisogni della maggior parte della popolazione.                                                                 

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