L’eremita di Monte Ciagola e l’era del Robotcene

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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francesco-bevilacqua-foto-blog-nuova_fe604_9a1af_2065f_4aa09.jpgPartiamo col sole già alto stamane, dai pianori di Ciranterio: grande balcone erboso, a novecento metri di quota, come gli spalti d’un antico teatro. Sullo sfondo, il Golfo di Policastro. Guido gli Amici della Montagna lungo la cresta nord del Monte Ciagola. Le fioriture sono al culmine: timo, viole, campanule, botton d’oro, margherite, orchidee. Nonostante qui pietre e rocce prevalgano su ogni altro elemento. Queste montagne sono pervase da un fascino arcano. È la forza della materia incarnata nelle rocce. Eppure, avverti che l’uomo, nei secoli, è venuto qui a plasmare la materia, a immergersi nella forza virile della roccia, a farla germogliare. Ed a lasciare che essa si faccia spirito, soffio, vento della creazione. “In principio erano le pietre”, potrebbe essere l’incipit di una Genesi di questi monti, “e l’acqua dei fiumi, e l’aria, impalpabile e viva; e poi gli alberi, e gli animali; e poi gli uomini, che non somigliano agli Uomini e, men che meno, agli automi-robot del tempo a venire”. Vivevano insieme nelle montagne, l’uno accanto all’altro. L’uno utile all’altro. L’uno congenere all’altro. Per come aveva voluto la Mente Creatrice del Cosmo. Ci si apre dinanzi Li Gretti, conca erbosa, con resti di abituri, stazzi, terrazzamenti, e perfino un’aia dove si spulava il grano di montagna. Chiudo gli occhi, in silenzio: ascolto voci lontane nel tempo. Poi la lunga cresta da cui si apre la vista sulla valle del Lao, puntellata di villaggi, boschi, prati, gole, creste, rupi. E montagne a perdita d’occhio. Un pinnacolo di roccia, come la punta di una freccia preistorica. E siamo nell’ombra dei faggi. Esposto a nord, il bosco è un ricettacolo di segni, naturali ed umani: neviere, sentieri, inghiottitoi.

La vetta del M. Ciagola è un piccolo tetto del mondo, ed anche un centro del mondo, come direbbe Eliade. Riscendiamo zig-zagando, come insetti impazziti, da una meraviglia all’altra: radure inondate di sole, rupi ispide, faggi dalle sembianze mostruose. Un nibbio solca il cielo luminoso. La muta d’un serpente finisce come sciarpa beneaugurante al collo di una delle compagne di viaggio. Congedo gli altri. Vado a far visita all’unico uomo che abita ancora queste solitudini, un vecchio pastore. Nonostante il suo nome – Felice - ha un’aria malinconica. Abiti bisunti, il volto annerito dal sole, le mani callose. Vive solo, da anni: un eremita che, come gli ultimi popoli incontattati della Terra, non vuole aver rapporti con gli Uomini. Perché sa che gli Uomini hanno scacciato l’uomo, hanno distrutto l’umanità, hanno prodotto l’Antropocene, l’era geologica in cui tutto è misura dell’insolenza dell’Uomo tecnologico. Non sa che di qui a poco finirà anche quest’era e ne inizierà una nuova, propiziata proprio dalla tecnologia, che da strumento si è fatta fine. È il Robotcene. Non ci sarà più posto per gli uomini come Felice e nemmeno per gli Uomini come noi. Sarà l’intelligenza artificiale a prendere il posto di Dio. Dimenticheremo le pietre, l’acqua dei fiumi, l’aria impalpabile e viva… Dimenticheremo noi stessi. E chi ci osserverà dallo spazio vedrà un brulicare di macchine e di automi. Solo nella casa di Felice, sul teatro naturale di Ciranteio, e in pochi, remoti recessi delle montagne della Terra, vi sarà ancora, forse, un eremita a pregare la Mente Creatrice, a commuoversi dinanzi alla bellezza del Mondo.

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