“Tumulti” a Lamezia

Scritto da  Pubblicato in Giovanni Iuffrida

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Non è proprio il caso di allarmarsi. A Lamezia, e nel Lametino, non è stata registrata alcuna sollevazione popolare, improvvisa, degna di particolare menzione storica e di alto valore sociale. Lamezia, mutuando il titolo del primo libro di Claudio Cavaliere, rimane, in fondo, una città tranquilla, che non ha sussulti, se non per alzare gli scudi contro la costruzione di centrali per la produzione di energia alternativa ed è capace, nello stesso tempo, di auspicare beatamente il calo degli “ormeggi” per metri cubi di nuove edificazioni, nell’area più compromessa della Calabria dal punto di vista paesaggistico e ambientale: l’area nota come “ex Sir”, luogo simbolo da mezzo secolo delle contraddizioni dell’incultura e dell’incapacità di governo del territorio. Ma a questo proposito, niente di nuovo sotto il cielo di Lamezia.

Questo articolo vuole semplicemente fare riferimento all’ultimo libro “Tumulti” (Rubbettino 2020) di Claudio Cavaliere, frutto di un affascinante lavoro di ricerca storica a cavallo della Grande guerra del secolo scorso, e più esattamente nel periodo 1906-1925, presentato nella sala del Civico Trame, venerdì 22 ottobre.

Per registrare tracce di tumulti degni di restituzione storiografica, Claudio Cavaliere ha dovuto migrare – come è destino per la maggior parte dei meridionali – negli archivi di altre parti della Calabria, con l’obbiettivo di dare sostanza alla seconda tappa della ricostruzione dell’universo femminile che aveva già pervaso il suo interesse di fine ricercatore, avendo pubblicato nel 2018 “L’Ape furibonda. Undici donne di carattere in Calabria”. Un lavoro, il suo, che arricchisce il patrimonio storiografico di qualità prodotto, nelle nostre latitudini culturali, da Antonio Bagnato e Giuseppe Masi.

Un’intensa attività di ricerca la cui presentazione è stata impreziosita dai ricami canori della Calabria in lotta di Francesca Prestia (simbolicamente, un’altra donna protagonista) e dagli efficacissimi dialoghi dell’autore con Claudia Ammendola e Giancarlo Pitaro, che hanno consentito di delineare il profilo storico-culturale del volume. Un lavoro che, di fatto, col suo incedere da racconto/saggio ha superato a piè pari il perimetro del ristretto localismo, restituendo figure di donne che sembrano appartenere ad un’altra Calabria e al di fuori del femminismo militante, tanto da dare valore aggiunto al docufilm “Donne di Calabria”.

Un libro che, con un linguaggio scorrevole e accattivante, ha innanzitutto il merito di far rivivere donne calabresi, semplici e povere di pane ma ricche di umanità e di rabbia eroica per i propri figli abbandonati da Patria e padri, ora per la trincea ora per le Americhe bisognose di braccia. Donne che avevano l’obbligo di sostituirsi al “pater familias”, pur non avendo la stessa forza fisica e il ruolo sociale, né strumenti culturali per poter contrattare con lo Stato. È la fame di pane – una questione di mera sopravvivenza, dunque – che fa lievitare la farina del tumulto, la ribellione contro la rappresentanza pubblica. Una lotta a mani nude contro il piombo del nemico rappresentato, ahimè, dalle istituzioni, spesso braccio armato dei “baroni” di sempre: ieri quelli del latifondo e dei feudi oggi del potere istituzionale, nelle sue varie articolazioni usurpative, repressive e mortificanti.

Una condizione che è sintetizzabile nel personaggio nevralgico quanto invisibile – Giovanni Giolitti – che connota il periodo storico-politico e l’alone culturale in cui trovano posto sostanzialmente gli avvenimenti: tutto ha una collocazione dentro la doppiezza della sua nota affermazione “la legge si applica ai nemici e si interpreta per gli amici”. In realtà le radici della rabbia spesso repressa nella subordinazione, vista come connaturata all’esistenza umana, trovano leva nella fame e nel senso d’impotenza delle madri che non possono però soffocare le grida di dolore e sopportare la sofferenza dei figli. E perciò sono capaci di sfidare il piombo di Stato nel contesto di quell’odio meridionale che si innesta nella questione demaniale ottocentesca, ereditata dai figli quale “male” di Stato in aggiunta ai miseri “beni” di provenienza familiare, che negli inventari testamentari si limitano a meri elenchi di suppellettili “usate” e a qualche stanza a piano terra senza finestre. In questa presenza/assenza di finestre c’è – sembra paradossale, ma è così – una parte sostanziale, fisica, tangibile, della distanza storica tra nord e sud, che oggi chiamiamo “differenze regionali”.

Ma sono la questione demaniale e le false promesse del potere istituzionale a generare un odio sempre più crescente che la fame (quale esito di sfruttamento, terremoti, alluvioni, epidemie, filossera, ecc.) sprigiona in forma di rabbia a mani nude (il brigantaggio armato non è sempre “eroico” come molti storici locali vogliono far credere). Molte donne di quel periodo che imploravano aiuto erano vedove bianche che la fame ha spinto nelle stanze del potere per implorare il diritto alla sopravvivenza (una esplicita necessità economica, dunque, non certamente politica, in mancanza di una vera consapevolezza). E lo scontro con le istituzioni repressive (con tanto di compiacimento della doppiezza giolittiana) autorizza le autorità giudiziarie ad “interpretare” lo sciopero come politico e non di tipo economico: doppiezza che continuerà fino ai nostri giorni, come eredità culturale propria della sinistra e ben assimilata dalle altre forze politiche.

Sono comunque figure femminili che – in una Calabria stagnante, succube e rassegnata – sacrificano la propria vita, armate di faldali e gonne nere di un perenne lutto contro le pallottole dello Stato non distinguibile dal nemico che fa carne da macello dei contadini calabresi nelle trincee del nord. Azioni di donne che non riescono a mobilitare masse ma soltanto a nobilitare loro stesse, con il sacrificio più alto, quello della vita, in un contesto di rassegnazione popolare, propria della povertà sociale e culturale che sovrasta persino la totale miseria economica. Né la leggera e periodica raccolta notturna dei gelsomini può essere ritenuta un segno di riconquista della femminilità perduta nell’emergenza perenne della fame di pane. I gelsomini rappresentano paradossalmente un’altra parte del dolore della “carne umana” calabrese.

Marc Bloch ha scritto che “il buono storico somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda”. Di questa carne da macello che sta fuori delle trincee di guerra e che ingaggia la lotta quotidiana per la sopravvivenza si è occupato Claudio Cavaliere, rendendola digeribile con l’abilità del vero storico/comunicatore. La fluidità della narrazione con l’intercalare dei giudizi netti rende la lettura immediata e rende palpabile il fascino delle figure delineate, che avendo avuto una vita breve assumono un valore lungo e duraturo stimolando il sogno. Da qui il valore della narrazione filmica.

Tra le tante – al di là dell’estremo valore del sacrificio umano delle singole figure femminili, oltre alle tante che rimangono in silenzio, ignote e piegate nei solchi delle campagne calabresi –, il libro suscita una riflessione: alla Calabria – al di là delle tante celebrazioni e dei monumenti che occupano le mille piazze – è mancata storicamente un’élite in grado di rappresentare i tanti disagi sociali e di massificare una protesta decisiva.

Oggi rimangono soltanto le tracce di quei “monumenti sociali” senza architetti, che sono le case in vendita per un euro con poche e piccole finestre sparse nei borghi e nelle campagne calabresi. Case che rappresentavano il bisogno di protezione dal mondo esterno e, nello stesso tempo, la chiusura del micro-universo familiare consolidante l’atomizzazione sociale (spontanea) contrapposta ad un universo umano e ambientale avverso. In questo sta tutta la negatività della Calabria che è ancora sotto i nostri occhi.

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