La Teda, un libro di Saverio Strati

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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francesco_bevilacqua_.jpgCi sono libri che ti bruciano le mani solo a toccarli. Libri che cominci a leggerli e non riesci più ad estraniarti. Libri che anche mentre lavori ti rodono la mente e il cuore. E hai solo voglia di tornare a casa per immergerti nella storia. E quando hai finito, ti resta un senso di vuoto, come di perdita, come di lutto. E sai che quegli uomini, quelle donne, quei luoghi continueranno a vivere dentro di te in eterno. Avrai nostalgia di loro. Ti prenderà una malinconia infinita, una tenerezza dolce e inconsolabile. Ti chiederai come abbia fatto un uomo a scrivere quel libro. Un libro così non è frutto di mente umana. E’ ierofania pura. E' un manifestarsi del numisoso su dei fogli di carta. E’ un mistero sacro che attraversa il corpo del narratore, lo trafigge, gli muta il sangue e ne esce in forma di parole. Questa sensazione ho provato nel leggere “La teda” di Saverio Strati. Di Strati abbiamo già parlato in questa rubrica recensendo “Tibi e Tascia”. “La teda” è il suo secondo romanzo, uscito per Arnoldo Mondadori nel 1956 nella famosa collana “La Medusa degli Italiani” per la quale scrivevano, tra gli altri, Elio Vittorini, Dino Buzzati, Ignazio Silone, Alberto Moravia, Massimo Bontempelli, Grazia Deledda, l’altro calabrese Raoul Maria De Angelis (del quale ho qui recensito “Inverno in palude” e “La brutta bestia”). Viene dopo “La Marchesina”, il romanzo di esordio, che è del 1953, e prima di “Tibi e Tascia”, che è del 1959. Strati ebbe un grande successo di pubblico e vinse prestigiosi premi tra cui il Campiello nel 1977 con “Il selvaggio di Santa Venere”. Vive ora, grazie all’assegno della Legge Bacchielli, a Scandicci.

“La teda” rientra nell’ambito del neorealismo, movimento artistico che tese, dopo la Seconda guerra mondiale, a dare risalto agli aspetti reali (fatti spesso di miserie) della società italiana. Aspetti per gran parte sconosciuti, anche perché volutamente occultati dalla propaganda fascista, tutta rivolta a magnificare la potenza e la modernità (presunte) dell’Italia. Ma dico questo solo per onor di cronaca. Ed infatti, si potrebbe credere che, conclusasi ormai l’esperienza neorealista, leggere oggi “La teda” possa sembrare anacronistico. Non è così. Tutt’altro. “La teda” è un romanzo bellissimo e sconvolgente. In esso c’è il succo della questione meridionale, il distillato dell’anima della Calabria, del suo essere arcaica (ancora oggi, nonostante il tempo trascorso), tribale, vendicativa, rancorosa. C'è, insomma, il senso di tante cose che ci riguardano. Il linguaggio di Strati è secco, scarno, rapido, essenziale, a volte iterativo (soprattutto quando sottolinea i silenzi ripetuti che spezzano i dialoghi, conferendo loro un'intensa drammaticità). I fatti si succedono con una forza che trascina. Pur svolgendosi sostanzialmente in un solo luogo: il borgo di Africo vecchio, nel cuore dell’Aspromonte, prima della grande alluvione che costrinse tutti gli abitanti a fuggirne. Di Africo e della sua storia abbiamo già parlato da questa rubrica recensendo “Tra la perduta gente” di Umberto Zanotti Bianco e “Africo” di Corrado Staiano. Dicevo del linguaggio. Strati fa un grande uso dei dialoghi. Non solo quelli tra i protagonisti del romanzo. Ma anche quelli interiori di Filippo, il giovane “mastro” muratore che è poi l’io narrante del romanzo. E’ attraverso i dialoghi che si dipana la storia, che le vicende vengono raccontate. Sono dialoghi concitati, a volte eccitati, a volte mesti, a volte lugubri. Che rendono bene il senso di oppressione e però anche la voglia di rivolta e di riscatto di un popolo derelitto, abbandonato da Dio e dagli uomini.

“La teda” è una storia di miseria sordida, di oppressione, di violenza, ma anche di dignità. E’ la dignità dei poveri, dei diseredati, che accettano di vivere (e di morire) nonostante la loro miseria. Il nome del paese è camuffato in Terrarossa. Noi sappiamo che si tratta di Africo per diverse ragioni. Intanto l’ambientazione è quella: un paese isolato e senza strada nel cuore dell’Aspromonte. E poi Strati ad Africo ci lavorò effettivamente come muratore – come il protagonista del romanzo – per costruire delle case popolari. Quindi l’autore conobbe bene quella realtà inenarrabile (e che fosse realmente inenarrabile ce lo dicono anche Zanotti Bianco e Staiano) ed ebbe l’intuizione di raccontarla con un romanzo. Siamo sul finire della seconda guerra mondiale. Molti uomini sono al fronte. Filippo è un giovane di un paese collinare dell’Aspromonte orientale, collegato a Terrarossa da un irto sentiero per percorrere il quale ci vogliono diverse ore. Un impresario del suo paese ha appaltato i lavori di costruzione delle case popolari a Terrarossa e v’invia una squadra di muratori. Della squadra fa parte il giovane Filippo, ma anche un altro giovane, Costanzo, fidanzato con la sorella di Filippo (Giovanna) e la cui sorella (Immacolata) è, a sua volta, innamorata di quest’ultimo. La distanza tra i due paesi è tale che la squadra deve soggiornare per lunghi periodi a Terrarossa, in una casa presa in fitto, dove i muratori dormono su un pagliericcio e mangiano tutti insieme. Durante il giorno i mastri lavorano alle case. Alcune ragazze del posto trasportano di continuo acqua e calce. Altri uomini spaccano le pietre e le porgono ai muratori. Alla sera i mastri vengono accolti nell’unica osteria del paese o nelle singole case, dove la gente sta raccolta attorno al focolare alla luce di una teda. La teda è una scheggia di legno di pino (che veniva raccolta negli alti boschi dell’Aspromonte, intaccando con l’accetta l’interno dei tronchi), intrisa di resina, che funge da candela: a Terrarossa non c’è altra possibilità di luce quando cala l’oscurità.

Le case del borgo, a ottocento metri di altezza su una pendice dirupata che cala verso un vallone precipite, sono affastellate le une alle altre. Mille volte distrutte dalle catastrofi naturali e mille volte ricostruite alle meno peggio, sono quanto di più precario e malsano si possa trovare nell’Italia dell’epoca. Abbiamo ancora la testimonianza visiva di ciò che fu Africo vecchio nelle foto di Zanotti Bianco del 1928 ed in quelle di Tino Petrelli del 1948, scattate per una inchiesta giornalistica pubblicata da Tommaso Besozzi su “L’Europeo”. Bambini mocciosi e seminudi scorrazzano per strette viuzze invase dal fango, dalle pietre e dagli escrementi. Le case sono costituite da un’unica stanza buia a pian terreno dove l’intera famiglia vive in promiscuità con capre, porci e galline. La popolazione è costituita da braccianti, contadini poveri e pastori che traggono sostentamento dai campi coltivati a lenticchie e segale, dalle castagne, dalle poche greggi e mandrie. La proprietà fondiaria, così come quella delle greggi e delle mandrie, appartiene a pochi possidenti che neppure vivono ad Africo. Le condizioni igieniche sono disastrose. Non c’è un medico. La gente muore di fame e di polmonite. Lassù non arriva nemmeno la farina distribuita dal governo. La farina destinata ad Africo ed imboscata da qualche speculatore è oggetto delle fantasie e dei desideri più sfrenati della gente. Che sempre promette ribellioni e fuoco se non arriva, la farina, che mai arriverà. I lavori delle case popolari rappresentano una novità per gli abitanti di Terrarossa-Africo. Filippo, roso da una irrefrenabile voglia di vivere, geloso per la stima che il proprio padre nutre nei confronti di Costanzo (considerato già un provetto muratore ed un giovane serio che si farà strada), insoddisfatto della sua vita, non fa altro che insidiare le donne del paese. Le giovani che lavorano con lui, ma anche qualche moglie il cui marito è in guerra. La storia si dipana su due binari.

Il primo è quello della lotta interiore di Filippo, il conflitto con la figura del padre e con quella di Costanzo, che, per conto del padre, lo sorveglia e lo consiglia, ottenendone però, in cambio, solo rancore. Costanzo, oltre che essere un giovane con la testa sulle spalle, è anche desideroso di migliorarsi (la sera, invece di bighellonare per il paese, legge romanzi) e, soprattutto, condivide le pene della gente di Terrarossa. Filippo vorrebbe guadagnarsi la stima del padre, di Costanzo e degli altri mastri. Ma è insofferente, egoista, immaturo, inquieto. L’avere a portata di mano tante donne “incustodite” lo rode come un tarlo. Per cui finisce per cercare proprio a Terrarossa l’iniziazione alla virilità e con essa un frainteso senso di libertà. Fa la corte contemporaneamente a quattro donne diverse. Cicca, bella e pura come la Madonna, irraggiungibile perché promessa ad un bravo giovane andato in guerra e di cui non si hanno notizie. Carmela, debole, insoddisfatta perché promessa dal padre (pastore malavitoso) ad un altro giovane pastore che però non ama. Rosa, donna sposata, procace e vogliosa. Giuseppa, altra povera donna il cui marito è lontano in guerra. Da Rosa Filippo ottiene con facilità ciò che vuole. Da Giuseppa se lo prende quasi con violenza. Con Carmela non riesce, perché il padre della ragazza conclude rapidamente l’indesiderato fidanzamento. Da Cicca non può ottenere nulla, tanto la bella e buona giovane è legata al ricordo dell’amato. Le scene di sesso sono concitate. Si svolgono in case separate da labili pareti di legno o di canne. Nell’imminenza dell’arrivo di qualcuno. Filippo profitta dell’insoddisfazione delle donne. Come abbiamo rilevato recensendo Luca Aspea “Il previtocciolo” e Santo Gioffrè “Terra Rossa”, ma come traspare anche da “Gente in Aspromonte” di Corrado Alvaro e in “Sole nero a Malifà” di Sharo Gambino (anche questi due titoli abbiamo già recensito nella rubrica), il sesso, per donne e uomini che vivono nella più sordida promiscuità, che sono costretti a sbarcare quotidianamente il lunario, che ogni giorno temono per la propria vita e per quella dei propri cari, è una tentazione irresistibile, un piacere a buon mercato. A ciò si aggiunga la carenza di uomini adulti per via della guerra o dell’emigrazione e il quadro sarà completo: l’idea di una società sessuofobica è ben lontana dalla realtà dei paesi della Calabria dell'epoca. Ma il sesso, come ho detto, rappresenta la via di fuga e di maturazione di Filippo, il cui conflitto interiore è sempre vivo. Anche quando Filippo, violentatore quasi di Giuseppa, si indigna perché un altro pastore malavitoso del paese ha cercato di rapire Cicca e alla fine, a forza di intimidazione e violenze, riesce ad ottenere che la famiglia si pieghi e gliela prometta in sposa, contravvenendo con l’impegno già preso verso il vero fidanzato.

L’altro binario narrativo è rappresentato dalla condizione sociale del paese. Ho descritto l’ambiente naturale entro cui la vicenda si dipana. Ma dell’Aspromonte Strati evoca solo il nome. La montagna non ha volto. La natura è cupa e matrigna. Solo l’uomo è protagonista. E l’uomo di Terrarossa è un distillato di miserie. Innanzitutto la miseria materiale, il non avere case decenti, il non poter contare su nulla, il non poter elevare la propria condizione. “I morti non si devono piangere […], bisognerebbe piangere quando si nasce”, commentano gli uomini al lutto di una mamma morta di polmonite non potuta curare. Poi la miseria di essere senza redenzione, come direbbe Carlo Levi, di sapere che nessuno andrà in soccorso del paese di cui tutti si sono dimenticati, di esser certi che chiunque potrà agire disonestamente nei loro confronti (dal podestà al medico, dall’impresario al comandante dei carabinieri) senza per questo pagare un prezzo, di credere che al mondo non c’è giustizia. Nel libro Strati è tra i primi narratori calabresi (il primo fu Saverio Montalto, alias Francesco Barillaro, con “La famiglia Montalbano”) a parlare apertamente degli uomini d’onore, dei malavitosi, dei malandrini che, con l’uso della sopraffazione e della violenza piegano alla loro volontà la povera gente e somministrano, in modo tribale, la loro personale giustizia. Poi, ancora, la misera della rassegnazione alla catastrofe imminente. Che è catastrofe morale e materiale insieme.

Mentre l’esistenza personale di Filippo si avvia a maturazione, si consuma, invece, la tragedia di Terrarossa, che non svelerò qui per non togliere al lettore il piacere di leggere la fine del romanzo da se stesso. Basti sapere che essa giunge inesorabile. E’ la tragedia stessa del Sud. La tragedia che accompagna l’irredimibilità della condizione del Mezzogiorno d’Italia, pur qui rappresentato da un piccolo grumo di case cadenti, di rovine sperdute nel cuore dell’Aspromonte. E’ la tragedia della fine di un mondo, del mondo degli africoti. Ad uno dei protagonisti, infatti, Strati fa esclamare, dinanzi alla castatrofe, “siamo alla fine del mondo!” Laddove per “mondo” s’intende il piccolo universo materiale e morale del paese. Laddove per "fine", per dirla con Ernesto de Martino, s’intende una vera e propria apocalisse culturale. Pur nella loro miseria, infatti, gli africoti amano quel posto derelitto. Cicca esclama, con semplicità, all’inizio della storia: “A me piace, perché è il mio paese; perché ci sono nata e cresciuta; perché c’è mio padre e mia madre. Che m’importa a me degli altri paesi […] Ognuno deve essere contento delle cose che ha”.

E mentre si compie la catastrofe annunciata, Strati lascia che il romanzo si concluda con Filippo, che, divenuto finalmente adulto, sente che non tutto è perduto: “Forse per il discorso di Costanzo, forse per il sole che era ritornato a splendere in cielo, forse perché ce ne andavamo al paese salvi e io rivedevo Immacolata, non so: so che mi sentivo il cuore e gli occhi pieni di luce. Sentivo che tutto il mondo si doveva allargare e che diveniva luminoso e pieno di nuove voci e di nuovi suoni. Sentivo tante cose in cuore che non vi so dire, e non desideravo altro che la guerra finisse domani, per vedere prestissimo le nuove cose che sorgevano, per ripigliare il lavoro con altro amore.” Anche se, a noi che sappiamo come andò a finire per Africo e per gli africoti (evacuazione del paese vecchio e "deportazione" forzata nella new town - si direbbe oggi - costruita dopo varie peripezie sulla costa di Brancaleone), resta il rimorso di non aver potuto scongiurare quella fine del mondo. Ricostruendo, invece, il paese nei pressi del suo antico sito, come aveva auspicato lo stesso Zanotti Bianco, e dando a quella gente un po' di terra e un po' d'aiuto per trovare la loro pace.     

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