Monte Mammicomito: avere tutto senza possedere nulla

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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Mattino del giorno dopo. Mentre mi lavo, nel bagno della mia casa, un raggio di sole attraversa, improvviso, i vetri della finestra. Avverto una tiepida carezza sul volto. Fino a poco fa pioveva. In Calabria è così: l’inverno fa il burbero per qualche ora, qualche giorno al massimo, ma subito dopo torna l’eterna, gentile primavera. Lo sanno bene quei fiori gialli di acetosella che appaiono improvvisamente sotto gli ulivi. Lo sanno i crochi e i bucaneve. È andata così anche ieri. In pieno inverno, nel mezzo di febbraio, pur col rischio del maltempo, sul Monte Mammicomito.

Avevo altri programmi: una zona per me nuova nelle montagne di Davoli; un cammino più lontano e complesso fra le montagne di Africo antico, nel cuore dell’Aspromonte; il magnifico Bosco Archiforo, a Serra S. Bruno. Ma ricevo la telefonata di due amiche che vorrebbero aggregarsi. Pur assediato dai pensieri di lavoro, un algoritmo biologico nel mio cervello lavora per individuare una meta che si addica alle loro capacità, alle loro aspettative. Resto incerto sino alla mattina di domenica. Per non sbagliare, porto con me gli stralci di tutte le carte topografiche delle Serre e dell’Aspromonte. Ma, quando incontro gli altri, l’algoritmo ha già finito il lavoro: un itinerario nella zona del Monte Mammicomito, al quale mi legano tanti ricordi: incontri con uomini straordinari, fra cui un nonuagenario che tracciò nell’aria il cerchio della vita tipico della concezione greca del tempo; l’incidente che mi costò un inizio di necrosi alla caviglia; la scoperta di paesaggi incantati.

Saverio ed Alessandro sono veterani delle mie erranze. Loredana ed Alessandra, invece no. Si affidano a me, con una arrendevolezza che mi commuove, ma anche mi rende più responsabile. Il mondo in cui le conduco è a loro completamente sconosciuto.

Pietra è una piccola frazione di un piccolo paese, Placanica, che s’affaccia sulla grande lingua detritica della Fiumara Precariti. Una ripida scala scavata nella roccia secoli addietro, s’insinua fra le ripide pareti calcaree delle Timpe dei Lacchi. Usciamo allo scoperto, su una terrazza naturale che domina il grandioso paesaggio della fiumara. Sullo sfondo, montagne dietro montagne, che s’inseguono verso sud. È dinanzi a queste vedute che comprendi quanto l’uomo è minuscolo e la natura immensa. Chi vive sempre rinchiuso in uffici, case, palazzi, città, chi non solleva lo sguardo verso la Terra, il cielo, il mare e la loro bellezza, non potrà mai guarire dal delirio di onnipotenza della specie umana, dal credere di essere noi la parte migliore del creato.

Osservando questo spettacolo senza tempo, comprendo che la mia esistenza è più antica di quanto non mi si legga nel corpo. Risale, di generazione in generazione, ai miei genitori, ai miei nonni, ai miei avi. In me è scritta una lunga storia. I miei geni contengono codici millenari. La fiumara, i villaggi abbarbicati sulle alture, le montagne sono lo scenario delle mie vite passate, di quelle memorie celate nel profondo della mia psiche.

Valichiamo verso est. Ci si squaderna dinanzi lo Ionio, che brilla come una distesa di diamanti azzurrini. Loredana e Alessandra intuiscono che le ho condotte in un luogo unico. Vi mancavo da qualche anno. La zona è sempre più solitaria, i boschi e le macchie stanno reinvadendo ogni spazio. Restano segni umani di quel che fu il granaio di Pietra: muretti a secco, terrazzamenti, mulattiere. Solo la memoria mi consente di trovare il bandolo del cammino. Sopra Case Provenzali, dove un anziano contadino continua a coltivare la terra, ci inerpichiamo prima sino alla Grotta degli Schirifigghi e poi alla Timpa Perciata. Le amiche non credono ai loro occhi! Mentre si sporgono, sferzate dal vento, nel grande arco naturale della timpa; oltre cui vi è un abisso invalicabile, che separa la rupe da una teoria di colline e dal mare.

Conduco il gruppo verso l’alto, lungo la linea di massima pendenza, fra pietraie di calcare e macchie di lecci. Ogni volta che mi volgo indietro, appare il mare purpureo di Omero. Quello che il grande aedo definì nei suoi poemi “colore del vino”, forse perché i marinai e i pescatori, più che dall’azzurro del mare erano colpiti dal colore indaco che l’acqua assumeva all’alba e al tramonto.

Qui non viene mai nessuno. Né chi lo faceva un tempo: i pastori. Né chi potrebbe farlo oggi: gli escursionisti. Nessuno si cura di manutenere i sentieri, di segnarli, di divulgarli. L’orlo superiore del rilievo si ammorbidisce. Presto siamo ai Piani di Rufo, una grande conca erbosa sotto la cima del Mammicomito. Fra i muri a secco che anche qui sorreggevano i terrazzi coltivati, fra i castagni, fra i cumuli della spietratura, in mezzo alla fitta boscaglia di giovani lecci, ovunque le tracce dei cinghiali. Muoviamo nuovamente verso sud-ovest, in cerca della fenditura da cui parte l’antico sentiero che scende nuovamente a Pietra. Anche qui segni di totale abbandono. La sorgiva e le splendide vasche scavate nella roccia, che servivano agli animali per dissetarsi, sono invase dalla vegetazione. Una mano gentile ha messo il ferro di una vecchia vanga per indirizzare l’uscita dell’acqua dalla roccia. Sopra di noi il caos di enormi massi rotolati nei secoli e la rupe proterva che sovrasta la valle. Scendiamo piano, impressionati dalle imponenti “timpe” di roccia che ci sovrastano. Vecchi lecci, case abbandonate, carcasse d’auto, qualche coltivo e l’unica abitante di questo luogo ci accolgono. Il nonuagenario che incontrammo più volte, che riprendemmo e intervistammo, quello del gesto del cerchio nell’aria, è morto da poco. Una volta rientrato dalle miniere di carbone in Germania, non ha più voluto lasciare il suo villaggio. Sino alla fine.

Anche noi abbiamo concluso il nostro anello. Un senso di stupita malinconia, di felicità effimera (ma come potrebbe, la felicità non essere effimera?) ci invade mentre scendiamo alle macchine, osservate dalla donna che accudisce le caprette, con un bimbo allegro che le ruzza intorno (il nipotino che è venuto a trovarla insieme ai genitori). È un mistero come la solitudine e la bellezza della natura possano bastare per vivere sereni. Lo è per chi come noi abita questo mondo impazzito. Non lo è per questi eremiti, questi mistici laici che hanno scelto un altro mondo, che hanno tutto senza possedere nulla.

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