Un anno in Aspromonte di Domenico (Mimmo) Gangemi

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francesco_bevilacquaDi Francesco Bevilacqua

Provo uno strano imbarazzo nel leggere articoli e saggi sulla mafia in Calabria. Anche se sto, senza tentennamento alcuno, dalla parte della legalità, dello Stato, delle forze dell’ordine, di chi si ribella contro la mafia. Credo di aver capito cos’è quell’imbarazzo e perché lo provo. Ho la sensazione che ciò che sto leggendo sia una verità parziale e temporanea, un’analisi monca. Perché, solitamente, si basa su inchieste giudiziarie, su dati e statistiche temporalmente ben racchiuse. Perché, insomma, non fa i conti con la memoria. E quindi è anche senza prospettiva. Esistono utilissimi saggi che ricostruiscono la storia del fenomeno mafioso in Calabria (fra tutti quelli pionieristici di Sharo Gambino e poi quelli, più attuali, di Enzo Ciconte). Eppure, la loro lettura, per quanto indispensabile, non basta, secondo me, per capire.

Perché proprio di questo si tratta: capire come sia stato possibile che in una regione fatta per lo più di persone umili e gentili (per come le ho conosciute in più di trent’anni di peregrinazioni pedestri) si sia potuta radicare un’associazione segreta che ha come scopo quello di delinquere e che usa il terrore, la forza bruta, il sangue per imporsi. Lasciate perdere i luoghi comuni del Sud come un paradiso abitato dai diavoli. Non fate caso alla tradizionale idea che ci vede ancora come eredi di feroci briganti. Leggete gli scritti che dipingono la Calabria come un inferno con le dovute contestualizzazioni. E non vi fissate sulla leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i mitici fondatori della mafia, con tutta la conseguente ricostruzione leggendaria. Mettete da parte, per un attimo, l’efferatezza del fenomeno che ci restituisce l’attuale cronaca giudiziaria. È tutto vero, per carità, e va appreso. Ma non basta a capire perché.

Durante la mia lunga esperienza alla ricerca dell’identità (mi si passi il termine infido) della Calabria e nello stesso tempo delle mie radici, ho ritenuto che una narrazione ben fatta valga ben più di un saggio. A me pare che chi scrive saggi, in molti casi, abbia una gran paura di cimentarsi con il racconto. Perché i saggi pretendono di dire verità precostituite (spesso legittimamente e scientificamente), mentre il racconto affida al lettore il compito arduo di riflettere, dubitare, immaginare, elaborare, decodificare, in una parola, capire.

E così è – a mio parere – per il fenomeno mafioso in Calabria. In questa rubrica abbiamo recensito almeno tre romanzi fondamentali che si imperniano su questo argomento: La famiglia Montalbano di Saverio Montalto, Impallidisco le stelle e faccio giorno di Domenico Strati, Zephira di Gioacchino Criaco. Oggi ne aggiungiamo un altro, altrettanto importante: Un giorno in Aspromonte di Domenico Gangemi, pubblicato nel 1995 da Rubbettino. Gangemi (con il nome di Mimmo) è assurto agli onori della cronaca letteraria italiana nel 2009 per un libro, Il giudice meschino, edito da Einaudi, che ha avuto un buon successo di critica e di pubblico. Considero la lettura di Un anno in Aspromonte, di estremo interesse per chi voglia davvero comprendere il fenomeno mafioso in Calabria e, attraverso esso, anche alcuni aspetti essenziali della nostra società.

La vicenda narrata da Gangemi si dipana in un piccolo paese alle falde occidentali dell’Aspromonte all’epoca degli ultimi rapimenti di persona avvenuti in Calabria. Il paese è una tipica comunità calabrese semirurale, solo apparentemente trasformata da una modernizzazione fraintesa e coatta, una comunità che si ripiega su se stessa, dalla quale le persone continuano ad emigrare come un’emorragia inarrestabile, dove invidie, rancori, legami d’onore, pettegolezzi, familismo (non saprei giudicare se quello del Sud sia davvero “amorale” come dice Banfield in un famoso saggio sociologico del 1963) sono il nutrimento quotidiano della gente.

Tra i tanti tipi che compongono l’asfittica società del paese vi è un borghese, un professionista giovane, onesto, affermato, Gino Parisi, che vive con la moglie e i figli in una bella villetta. L’ingegner Parisi è uno di quegli uomini che ha deciso di restare e che è riuscito a realizzarsi nel suo paese d’origine, anziché emigrare. Ma ha un difetto: non è un eroe. Come quasi tutti in paese. Come quasi ovunque in Calabria. Dinanzi alla corruzione, all’inefficienza, all’insipienza della pubblica amministrazione, la gente, da secoli, si arrangia da sola. I più “furbi” si affidano a consorterie ndranghetiste, i più “fessi” (ricordate la famosa distinzione tra furbi e fessi di Prezzolini?) ne riconoscono, comunque l’autorità, e, per non essere spazzati via, si piegano come i giunchi al passaggio del vento (metafora di un vecchio proverbio calabrese). Oggi, i professionisti dell’antimafia – uso la famosa locuzione di Sciascia – chiamerebbero questa gente rassegnata “zona grigia”, intendendo quelli che “pavidamente” non stanno tutti i giorni a fare cortei antimafia e che, per sopravvivere, si adattano.

Non c’è bisogno di scomodare antropologi e sociologi per sapere che l’adattamento è il primo strumento di un uomo per vivere in un determinato ambiente. Ma gli “eroi”, comunque, chiamano chi si adatta “zona grigia”.

Bene, il libro di cui stiamo parlando è il romanzo che più d’ogni altro cerca di indagare sulle caratteristiche di questa “zona grigia”, in un’epoca, per altro, nella quale, tutt’al più si parlava di omertà, ma di questa nuova categoria in voga durante le odierne conferenze stampa degli inquirenti, non si discuteva proprio. In qualche modo, il libro di Gangemi è premonitore e per questo va letto e riproposto, ancor più delle sue opere più recenti.

Ma, accanto a ciò, occorre dire che siamo di fronte ad un libro “bello”, cioè ben scritto, ad una trama sapientemente organizzata per avvincere. Uno di quei romanzi calabresi (e non solo), insomma, che definirei fondamentali. Torniamo al protagonista, l’ingegner Parisi. Un giorno, la sua vita serena viene squarciata da una richiesta estorsiva e da un attentato intimidatorio. Dinanzi all’insipienza e all’impotenza delle locali forze dell’ordine, l’ingegnere, pur con riluttanza, pensa di rivolgersi ad una famiglia di ndranghetisti del paese, quella emergente. Altrimenti non se ne verrebbe a capo e sarebbe costretto a pagare. A parte il pericolo che correrebbe la sua famiglia.

E mentre Gino si rivolge allo ndranghetista Micu Barrese, l’autore ci svela sin da subito chi sono gli autori del tentativo di estorsione: quattro giovani, cani sciolti più o meno impavidi, ovviamente nullafacenti, stufi di vedere gli altri fare i furbi, rancorosi verso il passato di stenti delle loro famiglie, certi che la scorciatoia giusta per il “successo” sia quella di fare da soli e, soprattutto, di cambiare strategia rispetto alle vecchie famiglie dell’”onorata società”. Li comanda lo spavaldo Cola. Essi pensano che le estorsioni vadano fatte anche ai compaesani, quelli danarosi, quelli che il successo l’hanno già avuto, per meriti propri o per fortune più o meno lecite. E così non c’è solo Gino Parisi nel loro mirino. Anche altri notabili del paese subiscono lo stesso trattamento.

A differenza delle forze dell’ordine, completamente inadeguate a comprendere la situazione, tutti, in paese, intuiscono quel che sta accadendo. Ed ognuno a suo modo decide di non cedere, di contrattaccare. Anche di questi altri l’autore ci offre efficaci ed accurati ritratti. In sottofondo a tutto il romanzo, invece, come il coro di una tragedia greca, c’è un gruppetto di vecchi amici che si danno appuntamento, a sera, nella falegnameria di Mastro Umberto, dove commentano gli accadimenti e chiosano comportamenti, pettegolezzi, dicerie, con un misto di saggezza popolare, di esperienza dovuta all’età e di complice malizia.

L’ingegner Parisi incassa le rassicurazioni dei Barresi, ma è preoccupato e perplesso: sa di aver fatto una cosa illegale e soprattutto pericolosa. Questa consapevolezza rimarrà stampata a lettere di fuoco nel suo animo durante tutto lo svolgimento della vicenda. I Barrese analizzano l’accaduto come dovrebbero fare degli investigatori efficienti, e, conoscendo tutto e tutti del paese, scoprono che ad organizzare lo sgarro sono i quattro giovani. Cola viene convocato e redarguito perché “la famiglia Parisi è cosa nostra”. Ma egli, con un discorso la cui logica non fa una grinza (vi rispettiamo ma anche noi vogliamo fare i nostri affari; “cu avi a vucca voli u mangia”; “ho già zappato abbastanza nella mia vita […], non mi piacciono i calli e non mi piacevano quelli di mio padre e la sua schiena curva di fatica e umiliazioni”), fa capire ai Barrese che ha fretta di emergere e che non lo fermerà nessuno.

I quattro amici discorrono sul da farsi e, a loro volta, scoprono che i Barresi sono coinvolti in un sequestro di persona: per caso trovano un covo dove è stato tenuto prigioniero il rapito e raccolgono un bottone e d un piccolo pezzo di stoffa lasciati li dalla vittima forse per essere capace, dopo, di riconoscere la sua prigione. Certi di poter ricattare i Barresi, decidono, pertanto, di proseguire nella loro ascesa criminale. Una delle vittime, l’uomo d’onore vecchio stampo Ciccio Aversa si difende con le armi, ma viene arrestato. Un altro uomo d’onore, don Rosario, con i fedeli fratelli Laface pensa a come proteggere un amico, colpito anche lui dal tentativo di estorsione del gruppetto. La tragedia matura quando Cola tenta di ricattare i Barrese con la storia del rapimento. Viene brutalmente ed immediatamente eliminato ed il cadavere accuratamente nascosto. Il gruppetto di amici, privato del suo capo, si sfalda immediatamente.

Don Rosario e i Laface terrorizzano un altro della banda, Ntoni, con una “magistrale” lezione sugli “uomini d’onore” e su quella sorta di legge del taglione che segretamente vigeva ancora nella comunità: la pena è che Ntoni, per riparare al torto fatto (aveva bruciato l’auto ad un amico di don Rosario) deve bruciarsi, da solo, la sua di macchina, davanti a tutti. E così accade. È la legge del taglione, l’abitudine a ricorrere ad una giustizia rapida e sommaria con l’aiuto di uomini d’onore in una società incapace da secoli di elargire giustizia, di promuovere coesione sociale, di assicurare un minimo di ordine e di legalità, insomma la necessità di farsi lupo tra i lupi (che è poi una vecchia metafora filosofica di Hobbes che nessuno si è mai sognato di chiamare mafia).

Ntoni, dopo l’umiliazione subita, parte per il Nord Italia. Anche Peppe, il terzo del gruppo, subisce un trattamento analogo e scappa anche lui. Il quarto, Tano, cugino di Cola, deduce che qualcuno ha ucciso il compagno scomparso e per esclusione giunge ai Barrese. E vaneggia sul come vendicarsi. Intanto l’ingegner Parisi, inorridito da altri fatti di sangue che scuotono il paese, decide di trasferirsi anche lui nel Nord Italia e predispone tutto. Ma prima ha uno sfogo con i Barrese, ai quali rimprovera, improvvidamente, di avere agito sopra ogni limite e li incolpa della morte di Cola (anche se sa che la colpa è anche sua per aver chiesto protezione ai Barrese ma ignora che questi hanno fatto quel gesto soprattutto per proteggere se stessi).

Intanto Ntoni viene arrestato e messo al torchio per la scomparsa di Cola. Il sequestrato viene liberato dai suoi rapitori e ritrovato da un gruppo di persone del luogo, ma le forze dell’ordine fanno credere che siano state loro a salvarlo. La gente dell’Aspromonte e l’Aspromonte stesso ne escono tutti, indistintamente, diffamati, come se il bene, da quelle parti non esistesse in alcuna forma. L’epilogo giunge repentino e drammatico in un parossismo di accadimenti che rende il finale del libro simile ad un thriller. Peppe è braccato, perché i Barrese sospettano che lui sappia del loro coinvolgimento nel rapimento e possa rivelarlo a qualcuno. Dal Nord Italia, dove si trova, spedisce, per vendetta o per un ultimo tentativo di ricatto verso i suoi nemici, una busta con il bottone ed il pezzo di stoffa ritrovati nella covo dei sequestratori e con un resoconto della vicenda, all’ignaro ingegner Parisi, chiedendogli di rivelare agli inquirenti tutto quanto ha saputo nel caso anche lui scomparisse come Cola. Ma i suoi aguzzini, trovatolo, gli estorcono, sotto tortura, la verità e lo uccidono.

La scena si trasferisce di nuovo al paese dove si consuma l’epilogo drammatico: uomini dei Barrese perquisiscono lo studio dell’ing. Parisi sperando di intercettare prima che ne legga il contenuto la lettera di Peppe, ma la trovano già aperta. Parisi, intanto, appresa la grave verità, con l’animo in tumulto cerca consiglio e protezione a don Rosario, che però è fuori paese. Parisi resta solo col suo segreto. Mentre, finalmente, colto dal terrore, dalla ripulsa, dai sensi di colpa, decide di fare quanto avrebbe dovuto fare sin dall’inizio, ossia rivolgersi, fiducia a parte, alle forze dell’ordine, viene freddato in piazza dai killer dei Barresi che con lui seppelliscono per sempre il loro segreto.

Si conclude la tragedia, che ha diversi protagonisti: il paese, nella sua immobilità e nel suo fatalismo millenario, gli uomini d’onore vecchi e nuovi, con le loro regole e la spietatezza, l’”ordinamento” della ndrangheta locale, in bilico tra antichi equilibri e nuovi egoismi; l’assenza delle istituzioni; la solitudine di un uomo in bilico, tra il desiderio di restare e la necessità di fuggire, tra il bisogno interiore di rompere con la prassi della protezione e dell’omertà e la necessità, invece, di affidarsi agli stessi delinquenti per avere protezione. Da qualche parte nel libro, l’autore mette in bocca a qualcuno, uno sfogo amaro: che vengano, tutti coloro che ci giudicano da lontano, dalle comode redazioni dei giornali, dalle loro città civili; che vengano a scrivere di noi, della nostra omertà, del nostro terrore, del nostro inferno, vivendoci, per un po’, in questo girone dantesco. Forse solo, allora, capiranno davvero.

Domenico Gangemi

Un anno in Aspromonte

Rubettino

Soveria Mannelli 1995

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