Il gioco sporco di Lamezia

Scritto da  Pubblicato in Giovanni Iuffrida

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Iuffrida_matita.jpg

La mafia a Lamezia alza la testa. Le recenti indagini hanno detto che è stata mozzata la testa della mafia locale. In effetti è come avere reciso la coda di una lucertola che continua a muoversi e soprattutto a vivere in piena salute, estendendosi per dimensioni e forza. Lamezia non è come Catanzaro, anche in questo. Questa ridente città tirrenica ha il primato di cosche locali ben radicate e attive sul territorio, sebbene subiscano ancora l’influenza di quelle storiche presenti in altre parti della regione. Negli ultimi anni comunque hanno dimostrato grande dinamismo, hanno iniziato a espandersi oltre i confini regionali evidenziando la capacità di infiltrarsi nelle pubbliche amministrazioni. La mafia della città capoluogo, invece, si limita ad attività estorsive e a interazioni con i rom, ma non pare ci siano legami con gli apparati istituzionali locali. Una grande differenza tra le due città che fa capire quanto sia determinante per Lamezia il forte condizionamento della mafia per tutte le attività, in particolare quelle edilizie e, più in generale, economiche.

A Lamezia si è formato un blocco sociale variegato che ha inglobato ceti sociali di varia provenienza nella difesa di un modello di sviluppo e di un’economia con una consistente quota mafiosa fatta di capitale e di metodi tipicamente mafiosi. Il fatto stesso che le regole del “gioco” del rapporto tra pubblico e privato siano continuamente rivisitate è indice di un grave inquinamento ambientale: un gioco sporco. In quel cantiere normativo, di regolamenti e di atti di indirizzo si nasconde il male oscuro. La guerra alla mafia non si fa con le parole ma lavorando con coraggio, scegliendo di interrompere il carrierismo, sul fronte della rottura dei meccanismi che alimentano i contatti delle catene di trasmissione tra libere professioni e l’universo mafioso. E a Lamezia parlano i fatti, i muri delle costruzioni che trasudano sangue di persone prosciugate dalla mafia trionfante. L'aspetto paradossale è che non si vuole prendere atto che la cultura mafiosa permea buona parte della cosiddetta società civile a tal punto che espressioni del tipo “assumersi la responsabilità” non significa più, nel linguaggio comune, forma di attenzione per operare nel miglior modo possibile, bensì la capacità di fare qualcosa che è vietato in ambito civile, morale, amministrativo o penale. Le istituzioni pubbliche avrebbero dovuto ostacolare questo processo attraverso l’affermazione del principio della legalità necessaria, senza favorire ceti e interessi particolari ma a favore di un ordinato governo della realtà locale. In realtà soltanto dal 1993 al 1997, sull’onda di “Mani pulite”, si  sono azionati tutti i meccanismi disponibili di ostacolo agli affari dei mafiosi o dei loro affiliati fino a impedire il loro ingresso fisico nelle istituzioni. In quel periodo si respirava un’aria inaspettatamente nuova, foriera di sviluppi inusitati e di prospettive, poi disattese, di un “modello Lamezia” che partecipava alla costruzione di un progetto di città pulita in un Paese sporco, come aveva suggerito nei suoi scritti Pier Paolo Pasolini.

La recente indagine Perseo ha dimostrato che alcuni esponenti della mafia, i suoi affiliati, parenti, amici degli amici sono stati accompagnati da esponenti politici anche negli uffici pubblici, con tanto di banda, non solo musicale. Non si tratta di eventi straordinari ma ordinari. Una straordinaria ordinarietà che la dice lunga sulla lotta locale alla mafia. Ma non è solo un problema degli enti locali. Lo stesso presidente della Suprema corte di cassazione non ha potuto ignorare una verità dolorosa e determinante che spiega lo stato dell’arte della lotta all’asfissiante cultura mafiosa: “Proprio perché non deve trattarsi di un potere autoreferenziale, la magistratura italiana non può ignorare – tra i molteplici effetti esterni del suo operato – il forte calo di fiducia non solo internazionale, ma ora anche interno nei suoi confronti”. Circa venti anni fa, subito dopo “Mani pulite”, per quattro anni non si incontrava più un mafioso o un manutengolo nei corridoi delle istituzioni pubbliche locali. Il silenzio, della religione dell’ordine e del rispetto delle regole, era l’elemento dominante. Oggi il dissesto di Lamezia è soprattutto culturale, non nel senso di libri non letti o di biblioteche non frequentate, ma di comportamenti che offrono la dimensione della barbarie. E l’aspetto più grave del dissesto di Lamezia è nella generale tendenza a minimizzare i fatti, che è la parola d’ordine di quasi tutte le istituzioni operanti in questo territorio. Alla magistratura – ancora molti auspicano questo – spetterebbe un compito importante, uno scatto d’orgoglio per perseguire non i cercatori di frodo di lumache sgusciate ma la mentalità mafiosa che non è un dato astratto, ma comportamenti concreti. Forse non a caso, Giuseppe Ayala ha scritto di un’area grigia protetta, di silenzi e omissioni.

© RIPRODUZIONE RISERVATA